La vicenda che narra Mohamed Mbougar Sarr in Terra violata, il romanzo appena pubblicato nella bella collana Dal mondo di e/o (pp. 208, euro 16,00), ha luogo in una città africana dal nome inventato, in uno Stato africano ugualmente non rintracciabile su nessuna carta geografica, ma non potrebbe essere più vera. Con una prosa lineare che rende con efficacia il dramma collettivo cui si assiste, e con il contrappunto delle pagine di un diario intimo aperto sull’orrore crescente della popolazione, il giovane talento della letteratura africana racconta della presa del potere da parte della «Fratellanza», un gruppo di feroci fondamentalisti islamici decisi ad imporre con la violenza la propria «legge religiosa», e delle forme di resistenza che si organizzano, prima fra tutte la nascita di un giornale clandestino d’opposizione che cercherà di opporre alla barbarie montante il linguaggio della libertà. Nato in Senegal nel 1990 in una famiglia di medici, passato per l’École des hautes études en sciences sociales di Parigi, Mbougar Sarr ha all’attivo quattro romanzi e ha partecipato, accanto ad una decina di esponenti della società civile senegalese, al volume collettivo Politisez-vous! che auspica una rivoluzione pacifica dei giovani africani.
«Terra violata» racconta di una città africana dominata dagli jihadisti. Le è servito da ispirazione quanto accaduto nel Nord del Mali piuttosto che nello Stato Islamico del Medioriente?
Quando ho cominciato a lavorare al romanzo, tra il 2012 e il 2013, pensavo soprattutto alla minaccia costituita dall’integralismo islamico in Mali. Nel frattempo però anche la Siria aveva iniziato la sua lunga discesa verso il caos. Così, ho scelto che la città in cui si svolge gran parte della storia si chiamasse Kalep, una sorta di contrazione tra la maliana Kidal e la siriana Aleppo. Naturalmente quanto accaduto a Timbuctù, dove il gruppo jihadista Ansar Eddine ha distrutto nove mausolei pre-islamici, parte del patrimonio culturale dell’Africa occidentale e dell’intera umanità, mi ha spinto a raccontare questo orrore soprattutto pensando al Mali. Anche se la minaccia riguarda purtroppo tutto il mondo.
La minaccia jihadista è spesso descritta nei termini di uno scontro tra Islam e Occidente. Questo romanzo, al contrario, ci ricorda come le prime vittime dei fondamentalisti siano i musulmani e le popolazioni arabe e africane.
Questo è un elemento che dovrebbe essere ormai chiaro a tutti, ma che paradossalmente si è costretti a sottolineare ancora. L’integralismo islamico si nutre di un’ideologia di conquista globale che considera alla stregua di un «nemico» chiunque non aderisca ai suoi precetti o chi percepisce come un «alleato» dell’Occidente. Quella di lasciar credere – per primo all’Occidente stesso – che si trattasse solo di uno scontro tra islamici e occidentali è stata una strategia deliberata. Certo, questa è forse la componente maggiore nell’ideologia che alimenta il terrorismo, anche se nei fatti è smentita ogni giorno. Prima di tutto perché molti musulmani vivono proprio nei paesi occidentali o nei luoghi nei quali, ovunque nel mondo, questi fanatici hanno perpetrato i loro attentati. E penso in particolare a diversi Stati e città africane. Più che contro il solo Occidente, il terrore jihadista è in guerra contro tutti coloro che, quale che sia la loro fede o il colore della loro pelle, non intendano sottomettersi a ciò che i fondamentalisti considerano come «la Verità».
Il romanzo si apre con la scena raccapricciante di una folla eccitata che attende l’esecuzione pubblica di una coppia «colpevole» di essersi amata fuori dal matrimonio. Oltre a indagare le forme di resistenza, ha voluto descrivere come una dittatura possa trasformare gli individui e l’anima stessa di una società?
Sono sempre stato interessato alle condizioni di vita durante una dittatura, un regime totalitario, uno stato d’assedio. Mi sono interrogato a lungo su quale potesse essere il quotidiano delle persone in tali circostanze. Come potevano fare i conti con la paura, con la minaccia e il pericolo permanenti. Cosa succede in tali situazioni? È ovvio che tutti gli uomini cambiano a seconda di quanto accade intorno a loro, ma regimi brutali e coercitivi costringono ciascuno a pensare ed agire più velocemente: ad ogni istante la loro vita può essere messa in gioco. Una sorta di intensità fisica e metafisica che apre molte possibilità di scelta, di atteggiamenti, di morale. È questa molteplicità di comportamenti che mi interessava: chi resiste, chi si sottomette, chi tace, chi si astiene, chi collabora, chi soffre.
Lei ha spiegato che per definire la psicologia e il profilo dei personaggi di «Terra violata» si è ispirato ad alcuni romanzi che hanno raccontato l’occupazione nazista della Francia.
Il XX secolo costituisce una «materia prima» pressoché infinita per esplorare questi temi. Per antonomasia secolo delle dittature più violente, disumane, tecnologiche, e dunque le più mostruose, offre informazioni e tracce preziose sulla psicologia della coercizione, della paura, della violenza. I regimi totalitari costringono gli individui ad assumere un nuovo linguaggio: una parte della loro violenza si esercita proprio con l’imposizione di una sorta di nuova grammatica, una nuova lingua; per dirlo ancor più chiaramente, sul pensiero e sullo spirito. Ho studiato a lungo il periodo dell’occupazione nazista della Francia: le testimonianze, le storie, i diari e, soprattutto, i romanzi. Mi sono serviti da ispirazione gli scritti di Albert Camus per Combat, il giornale antifascista a lungo clandestino, o un romanzo come L’Armée des ombres di Joseph Kessel. Mi hanno fatto riflettere sul modo in cui i «resistenti», i partigiani, si sono organizzati, ma mi hanno detto molto anche del loro coraggio. dei loro metodi. Allo stesso modo mi interessavano le figure dei collaborazionisti. C’era poi tutta una fetta della popolazione che non avresti saputo dire se stava fino in fondo dalla parte della resistenza o della collaborazione, o se si trovava in una specie di zona psicologica e morale intermedia. Perciò, ho attinto da tutte queste tracce per costruire i personaggi e il clima di fondo del mio romanzo.
Non a caso anche i protagonisti del suo libro decidono di organizzare la resistenza allo «Stato Islamico» che si è insediato nel loro paese dando vita ad un giornale clandestino.
Sono assolutamente convinto, come dicevo, che il linguaggio, in quanto espressione del pensiero, è una delle prime cose che ogni sorta di regime totalitario, politico o religioso – o le due cose insieme come accade spesso – cerca di controllare imponendo un determinato vocabolario, considerato capace di imbrigliare il pensiero. Per questo si tratta di un elemento centrale in molti romanzi distopici, come accade ad esempio nelle opere di George Orwell. È quindi chiaro che è prima di tutto sul terreno del linguaggio che si deve lottare per opporsi alla dittatura. Ma come procedere? Prima di tutto, come fanno i personaggi del romanzo per contrastare l’ideologia jihadista, ricorrendo a tutta la profondità, la ricchezza e le sfumature della lingua che i loro oppressori vorrebbero invece piatta e standardizzata. Personalmente ho scelto questo mestiere perché credo nella capacità della scrittura di elevare l’uomo, di immergerlo in ciò che la sua mente può avere di più complesso e più alto. Essere liberi significa essere in grado di usare la propria lingua per parlare al mondo come a se stessi.
L’altro elemento per il quale si caratterizza il regime che si è imposto nella città di Kalep è il controllo dei corpi, in particolare quello delle donne.
L’ideologia islamista esprime da sempre una specie di paradosso a proposito del corpo delle donne. Se vogliono così tanto coprirlo, controllarlo, nasconderlo, è perché lo desiderano tanto. È strano, ma quello che vogliono così intensamente fa loro altrettanta paura. Quello delle donne spaventa gli islamisti perché è un corpo politico: simboleggia ciò che potrebbe far vacillare i dogmi e i «principi eterni». Nella fase di preparazione del romanzo mi ha segnato moltissimo l’aver assistito a delle proteste delle donne del Nord del Mali contro la sopraffazione e le violenze degli jihadisti: non ho mai visto una rivolta così decisa.
Per questo romanzo ha ricevuto il premio Ahmadou Kourouma. Qual è il suo rapporto con l’opera del grande scrittore ivoriano, scomparso nel 2003, e come valuta l’approccio critico verso le élite africane post-coloniali, che lui espresse fin da «I soli delle indipendenze» (e/o) del 1968?
Ammiro il suo lavoro, la sua energia, la sua inventiva e audacia linguistica. Non cerco di imitarlo, sarebbe impossibile. Ma ciò cui mi ispiro è soprattutto la sua lucidità e ironia. Ne I soli delle indipendenze guardava alle società post-coloniali africane con lucidità, senza alcun compiacimento, dipingendo un quadro molto cupo non solo del colonialismo, ma anche delle società africane corrotte che l’hanno seguito. E tutto ciò, Kourouma lo raccontava con un umorismo estremo e contagioso.
Nel suo romanzo «Silence du choeur» (Editions Présence Africaine, 2017), inedito in Italia, racconta, dando voce a tutte le parti coinvolte – e ai rispettivi punti di vista -, l’arrivo di un gruppo di immigrati africani in un villaggio della Sicilia. Un modo per rispondere all’allarme che domina il dibattito sull’argomento in Europa?
Non so se questa storia contiene le risposte alla crisi che il mondo attraversa oggi. Spero però che possa aver contribuito almeno a far sì che su questo tema ci si ponessero le domande in modo diverso. È uno dei processi che i romanzi possono mettere in moto: suggerire che si guardi in modo diverso a quanto accade intorno a noi, concentrando la nostra attenzione sulla condizione umana, sulla vita interiore, sul complesso dell’anima più che sui grandi quesiti della geopolitica. Per questa via potremmo scoprire che ciò che è davvero in crisi attualmente è soprattutto la capacità di alcuni uomini di accoglierne altri e, l’«altro da sé».