«Sono nata a Tripoli, in Libia» quando coabitavano «arabi, ebrei nativi, italiani, americani e inglesi» conservando chiari ricordi di quei mondi, vicini e pur lontani, afferma Daniela Dawan, ora avvocata a Milano. Nel libro racconta così la vicenda, che coinvolse nel 1967 i tanti italiani libici costretti, in seguito alla guerra arabo israeliana dei sei giorni, a lasciare precipitosamente quello che consideravano il loro paese: «erano ebrei arabi, o arabi ebrei, e tra loro parlavano il trabelsi, il dialetto di Tripoli». Nella prima parte la caccia ai cittadini ebrei da parte di decine di migliaia di persone armate che inneggiano alla guerra santa, per cui la famiglia Cohen è costretta, «in spasmodica attesa» di un visto per espatriare in Italia, a nascondersi dall'amico arabo Fiallah, che non capisce perché gli ebrei siano diventati sionisti «ingaggiando una lotta senza fine col popolo in mezzo al quale erano sempre vissuti» e vuole dare aiuto anche se preoccupato delle manifestazioni violente e dei proclami. Nella seconda parte Micol Cohen, divenuta avvocata, è invitata nel 2004 da vecchi esuli ebrei, in un viaggio a Tripoli per la possibilità di un risarcimenti, visto che il governo Gheddafi sembra richiedere un avvicinamento con il mondo occidentale. Micol, venuta via a nove anni, non riconosce la città e nello stesso tempo scopre come le siano «familiari quell'aria e quel sole che abbaglia impietoso», mentre altre «immagini, sepolte nella memoria» riaffiorano e «fanno male» nel ritrovare le tracce della sorellina morta di cui i genitori non parlavano mai («il dolore si era tradotto in un silenzio assoluto»): ma il passato «viene lui da te, se vuole» le dice Farida. Se la letteratura riesce a trovare storie misconosciute, dolorose ma non retoriche, che la Storia ostacola o nasconde, l'autrice sembra vivere la memoria come presa di coscienza di sé, anche per rapportarsi con un passato di convivenza di comunità diverse che emerge da quelle crepe ed esige d'essere narrato.