A colloquio con Ahmed Saadawi, autore di Frankenstein a Baghdad, un romanzo scritto per non dimenticare gli orrori della guerra. Perché solo la consapevolezza di chi ricorda può essere il vero antidoto agli errori commessi in passato.
Guardare negli occhi Ahmed Saadawi – incontrato a Roma, a margine dei Med Dialogues – porta quasi senza rendersene conto a Baghdad, così come caffè dopo caffè e sigaretta dopo sigaretta l’immagine che prende corpo è quella di un uomo di cultura che usa la cultura per ricordare e per fare del ricordo lo strumento da contrapporre a quelle violenze che hanno segnato la storia recente dell’Iraq.
Nato nel 1973 a Baghdad, dove continua a vivere, Saadawi è autore di documentari per la tv, è giornalista, poeta, pittore ed è noto al grande pubblico per Frankenstein a Baghdad, romanzo con cui si è aggiudicato l’International Prize for Arabic Fiction e che in Italia è stato pubblicato dalle Edizioni e/o.
Perché un nuovo Frankenstein e perché a Baghdad?
Penso che quanto sia successo nel mio Paese tra il 2005 e il 2007 sia stato qualcosa di orribile, una grande tragedia che dobbiamo ancora capire e che bisogna comprendere. Adesso noi vorremmo dimenticare, ma penso anche che dimenticare porterebbe a ripetere degli errori. Frankenstein, la storia di questo Frankenstein orientale, aiuta a non dimenticare.
In arabo, il personaggio del suo romanzo si chiama ‘shu ism’ ovvero ‘qual è il suo nome?’. Un Frankenstein composto di pezzi di gente caduta senza sapere perché.
‘Shu ism’ non è né buono né cattivo. È allo stesso tempo giustiziere, carnefice e vittima. È uno di noi, è un simbolo, un essere umano. Perché chiunque di noi ha due parti: una buona e una cattiva. E la parte cattiva non è esterna, dobbiamo guardare dentro di noi per trovarla.
Nel suo libro dove finisce la fantasia e comincia la realtà?
Alcuni elementi del libro sono ancora attuali. Oggi potremmo avere un Frankenstein a Damasco oppure anche un Frankenstein a Tripoli. Quanto accaduto in Iraq, si è ripetuto in qualche modo in Siria, in Libia, in Tunisia, in Yemen… Governi che cadono, milizie armate, estremisti in azione: rivedo tutto questo in altri Paesi. Prendete la Libia: è divisa in tante regioni, ci sono milizie di ogni genere, hanno attecchito gli estremismi. Lo stesso è successo in Siria. È possibile riconoscere le stesse dinamiche così come il coinvolgimento di grandi e piccole potenze. A pagare sono però i più giovani.
Un giovane di 20/25 anni in Iraq deve ancora conoscere la vera pace.
Ho un fratello di 22 anni, senza lavoro. Si è sposato alcuni mesi fa, è molto confuso e preoccupato sul futuro. È difficile. Ed è difficile soprattutto se si considera che la maggioranza della popolazione è giovane e ha bisogno di tante cose: ha bisogno di lavoro, di una vita, di tempo, di futuro. Molti giovani in passato, in queste condizioni, si arruolavano nelle milizie, in al-Qaida. Adesso però prevale la stanchezza. Il grande problema è l’economia: se l’economia dovesse tornare a crescere, forse si risolverebbero tutti gli altri problemi. E l’aiuto della comunità internazionale appare determinante. Dobbiamo collegare l’Iraq agli altri Paesi, la sua economia agli altri mercati. Ma per farlo serve stabilità. In Iraq invece attualmente la situazione è instabile e l’economia risente di questa situazione. Il Paese è instabile perché instabili sono i rapporti tra Iran e Stati Uniti e l’Iraq è un territorio di guerra al centro di questa contesa. L’Iraq è debole. Se l’Iran è sotto sanzioni a risentirne è anche l’Iraq. In Medio Oriente il colonialismo è ancora attivo. Prendete l’Iraq: eravamo sotto influenza britannica, poi statunitense. Poi i russi, poi gli americani. Saddam Hussein era di fatto un uomo di Washington. Nessun pezzo di Medio Oriente può essere davvero capito se non in collegamento a una superpotenza.
In Italia, è stato scritto che il suo libro è un manifesto contro la guerra.
Sì. Sono d’accordo. La guerra dovrebbe essere soltanto parte della storia dell’umanità e non una situazione perdurante. La gente non può vivere sempre in guerra. In Iraq sfortunatamente la guerra continua a ripresentarsi. Da bambino c’era la guerra con l’Iran, da teenager venivo addestrato a uccidere, da giovane Saddam ha invaso il Kuwait e dopo sono entrato nell’esercito. Per tre volte sono entrato nell’esercito, l’ultima volta nel 2002, per cinque/sei mesi, dopo l’invasione americana. Quando ho concluso la terza chiamata, l’ufficiale mi ha detto: questa è l’ultima volta, non preoccuparti. Allora sono tornato a casa, ho preso l’uniforme e gli ho dato fuoco.