Una donna benestante e annoiata che decide di fare un figlio pur non avendo un uomo.
Una donna che crede che per essere “donna”, per sentire finalmente nella carne l’appartenenza a questo sesso femminile, debba portare a termine il fine per cui è stata creata: dare la vita.
È così facile da fare questo figlio, quasi un passatempo divertente. Sfoglia i cataloghi di maschi come fossero figurine, sa tutto di loro, di che colore hanno gli occhi e i capelli, quanto sono alti, legge i curriculum, le cartelle mediche, come sfogliasse un campionario di carta da parati in vista di riarredare casa. Finalmente potrà avere qualcuno con cui parlare, sarà bello averlo per casa, potrà fargli indossare vestiti buffi a carnevale e vantarsi di lui davanti a tutti.
Ma poi Il Corpo arriva, è bastata un’iniezione e lui ha cominciato a crescere nella sua pancia, e allora non è poi così sicura. È uscito da lei, ma è diverso da lei. È livido, gonfio, piange di continuo. È estraneo. Estraneo come sarà la sua balia, dopo infinite ricerche alla scoperta delle razze più sconosciute, alla fine la scelta ricade sulla ragazza eritrea. Eritrea e pure cristiana. Questa nuova vita è sfiancante, bisogna sempre confrontarsi con l’Altro, andare dallo psicologo per elaborare l’inadeguatezza, mettere i giorni uno in fila all’altro sempre uguali, controllare i propri impulsi, le voci nella testa.
Silvia Ranfagni riesce nell’operazione chirurgica a cuore aperto che è questo libro: un racconto sulla maternità, reale e quindi scomodo, sincero e senza fronzoli. Con una penna ironica e sarcastica veleggia sulle acque tormentate di un viaggio nell’interiorità di una madre per scelta che deve affrontare le contraddizioni quotidiane del sentirsi responsabile di un’altra vita. Una vita che tu hai voluto e creato, ma che non ti ricompensa e anzi si allontana, ha vita propria, propri pensieri e voleri e inclinazioni. Un’esistenza in costante equilibrio tra la paura e l’angoscia, tra l’autoflagellazione e il rimorso, ma raccontata con un piglio vivace e mai banale. Un’esistenza che cerca perennemente nell’altro la risposta alle proprie domande più intime.
«Il figlio dà piacere, giusto? È per quello che lo hai fatto. Per goderne. Invece il Corpo chiede di più, sempre di più. Ora se n’è inventata un’altra, cammina!
Beh, “cammina” è solo una parola. Il Corpo non cammina. “Arranca”, “traballa”, “sbanda”, “tenta di avanzare”, si regge, ma per poco, sugli arti posteriori. Sono per lo più tentativi umilianti. Anziché demotivarsi, il Corpo lotta. Lottando devasta l’ambiente intorno. Crea più reazioni di una pallina nel flipper. Sedie che si rovesciano, tende che si strappano, spigoli che spuntano quando meno te l’aspetti. Cento Euro [lo psicologo, ndr] è troppo furbo: non ha fatto un Corpo, lui. È uno di quegli uomini cerulei e compiaciuti, da sempre grande amante del lattice.
Cerchi di spiegargli che delirio sia un Corpo-che-cammina. Cento Euro ti ascolta raccontare, in lungo e in largo, fattarelli di una noia mortale a dirsi, di un’emozione soffocante a viversi. Il Corpo è in grado di raggiungere tavolinetti bassi. Da qui tutto il pathos. Il Corpo raggiunge prese della luce con la stessa spensierata confidenza. È ignaro degli indici di sicurezza delle cose. Agisce continuamente. Continuamente. Continuamente.»