Sarebbe un errore leggere L’ultima volta che siamo stati bambini (che abbiamo recensito, con vivo entusiasmo, qui) in un’ottica di leggerezza, così come considerare semplicemente ingenua la prospettiva e l’attitudine esistenziale dei suoi tre piccoli protagonisti.
È necessario, sfogliando le pagine, coglierne la profondità dissimulata e al contempo le verità che sorreggono e alimentano la trama, proposte dalla narrazione in maniera chiara e limpida, così come limpida risulta per il lettore la voce di Cosimo, Italo e Vanda.
Ad appena dieci anni, i tre giovani avventurieri hanno capito poco delle dinamiche politiche che li circondano e che condizionano in varia misura la loro esistenza, ma hanno invece idee molto precise sulle relazioni in generale, sull’amicizia in particolare, ma soprattutto su cosa sia giusto e cosa sbagliato. Così come hanno impresso nitidamente nella coscienza il fatto che ciò che è giusto va fatto, costi quel che costi.
Questa consapevolezza è la matrice del viaggio pericoloso e necessario che bisogna intraprendere per rimediare a un torto, per riportare le cose a un giusto ordine. E il lettore, che realizza che questo è il frutto non tanto di un’infantile ingenuità, quanto di una visione più lucida sul mondo, non può che porsi – ben prima di arrivare in fondo – domande serie e complesse, in grado di interessare anche la contemporaneità. Per provare a rispondere a qualcuna di queste, abbiamo contattato l'autore, Fabio Bartolomei, che ha accettato con straordinaria disponibilità di rispondere, durante le feste, al nostro fuoco incrociato.
Una delle scelte più efficaci della tua narrazione è la tecnica dello straniamento grazie alla quale, assumendo la prospettiva dei bambini protagonisti, smonti tutti i luoghi comuni del fascismo e della guerra in generale. Questo ti consente di scrivere un racconto di denuncia della guerra, evitando però il rischio del moralismo. Da dove ti è venuta l'idea? Quali erano i tuoi obiettivi narrativi?
Devo essere onesto, almeno all’inizio le scelte e la tecnica hanno avuto un ruolo molto limitato rispetto all’istintiva decodifica e all’altrettanto istintiva elaborazione dell’idea. I bambini, per esempio, non sono stati una scelta, sono nati insieme alla storia. Erano la storia, fin dal principio. In tutti i miei romanzi vesto i panni dei più deboli, degli indifesi, dei perdenti, possiamo chiamarla una tecnica ma in realtà è un’inclinazione al racconto che, umanamente parlando, mi permette di assumere un punto di vista privilegiato su qualsiasi argomento. Un soldato o un operaio rischiano molto di più di un qualsiasi generale o di un qualsiasi capitano d’industria, proprio per questo sono più credibili, più empatici e, se ben costruiti, sono i personaggi perfetti per scardinare le idee preconcette e la posizione di partenza del lettore. Lo stesso vale per bambini e anziani, le vittime sacrificali della nostra società. Sono loro il filtro più spietato per capire cosa realmente funziona e cosa no, dov’è l’inganno nascosto nell’efficientismo, nella velocità, nella crescita a tutti i costi, nello sbandieratissimo interesse nazionale. Tutta questa bella e altisonante robetta, quando la applichi al vissuto di un bambino o di un anziano, si rivela a poco a poco per ciò che è: un ammasso di miserabili balle. Mi sono dilungato, ma rimedio rispondendo brevemente alla tua seconda domanda, sull’obiettivo narrativo: come testimonia la dedica, è stato principalmente quello di scrivere un romanzo aperto a tutti, ragazzi, adulti e anziani. Ancora adesso mi sembra la scelta più sensata.
Il binomio guerra/bambini è molto sfruttato in letteratura. Tra i romanzi di questo genere, ce n'è qualcuno che ti è piaciuto particolarmente o che ti ha suggestionato per la stesura del tuo?
Il primo titolo che mi viene in mente è Tutta la luce che non vediamo di Anthony Doerr, una storia avvincente, significativa, costruita con talento. È una lettura di un paio di anni fa e non posso dire che mi abbia suggestionato. In generale non mi è mai capitato di trattare un tema o di fare delle scelte narrative sull’onda di un’emozione/suggestione. Anzi, mi sembra impossibile che possa essere sufficiente leggere un bel romanzo di guerra con dei protagonisti bambini per decidere di scrivere un altro romanzo di guerra con dei protagonisti bambini. Forse sarò una schiappa ma per far scattare la scintilla (una scintilla duratura, capace di accompagnarmi per mesi e mesi) devono attivarsi tanti di quei meccanismi e innescarsi tante di quelle reazioni che ogni volta mi pare di assistere al compimento di un mezzo miracolo. Il vero impulso che ricevo dalla lettura di un bel romanzo riguarda, genericamente, solo la voglia di scrivere. E non è poco, non è poco affatto. L’ammirazione e una buona dose di rabbia (leggasi anche: sana invidia) fanno miracoli.
I tuoi personaggi sono articolati, complessi, assolutamente plausibili nella loro singolarità. Tu li presenti al lettore uno a uno, dando spessore a ciascuno e rendendolo indimenticabile. Risulta chiaro dalla lettura che tu in primis ti ci sei affezionato, li accudisci per l'intera durata della narrazione. Cosa è stato più difficile nel processo di costruzione narrativa dei tuoi protagonisti?
Credo che l’obiettivo di ogni autore sia proprio quello di creare dei personaggi tridimensionali, vivi, veri. Quindi articolati, complessi e assolutamente plausibili nelle loro singolarità. Un bambino di dieci anni non è solo un bambino, è un figlio, un amico, spesso un fratello e va raccontato come tale, in tutti i suoi aspetti. È l’ingenuità che caratterizza i bambini, certo, ma sarebbe un imperdonabile impoverimento non soffermarsi anche sui loro lampi di istintiva e inconsapevole saggezza. Sono dei puri, ma non si può indugiare sul loro candore senza analizzare le prime ombre che lo contaminano. La complessità è la vera ricchezza di ogni personaggio, il patrimonio che un autore deve saper trasferire al lettore. Mettersi nei panni di un bambino è sempre un’esperienza gratificante. Mi piace, mi fa stare bene, mi costringe a dimenticare tutto ciò che so; l’aspetto più complicato è stato entrare nei panni di bambini che avevano dieci anni nel 1943. Come parlavano? Cosa sapevano? Qual era il loro immaginario? Quali le loro paure? L’aiuto maggiore in questo senso non mi è arrivato dalla lettura di romanzi, ma da alcune lunghe chiacchierate con mia madre (classe ’34) e dalla lettura di una raccolta di temi scolastici dell’epoca.
Un elemento di grande intensità del romanzo sta nel fatto che i ragazzini sono consapevoli di essere sul punto di imbarcarsi nella "missione più lunga e più vera” della loro vita, che appare quindi assolutamente inevitabile sia a loro che al lettore. Forse è questo il senso più profondo e più bello del testo, l'idea che certe volte non solo valga la pena di mettersi in gioco per qualcosa di importante, ma che non ci sia scelta, che si debba semplicemente fare la cosa giusta proprio perché è giusta. Quali sono secondo te gli ambiti che, anche al giorno oggi, richiederebbero maggiore implicazione etica, prese di posizione più chiare?
I bambini conoscevano la strada giusta e non hanno avuto paura di percorrerla. Questo dice il romanzo. La loro reazione agli eventi è da una parte figlia (indesiderata) dell’educazione e della propaganda dell’epoca, dall’altra è figlia (legittima) del patrimonio di purezza che appartiene a ogni bambino. Affrontando il loro viaggio, giorno dopo giorno, i tre protagonisti tracciano una linea di confine sempre più netta tra esseri e esseri umani.
Per quanto riguarda la tua domanda, scusami ma preferisco non rispondere. Al giorno d’oggi fatichiamo a distinguere un uomo vero da un maschione, non saprei nemmeno da dove iniziare.
In uno dei frequenti "momenti di verità" del romanzo, le due figure adulte della storia, Vittorio e suor Agnese, riflettono sulle colpe dei "padri", che hanno preso in quel frangente storico decisioni che non erano il meglio per i loro "figli". A me sembra che questo discorso possa essere un monito anche per il tempo presente. A cosa noi adulti dovremmo fare più attenzione? Da cosa dovremmo proteggere le generazioni a venire?
Dovremmo proteggerle dalla nostra ignoranza, non c’è dubbio. A pagina 95 di un libro di storia di terza media ho trovato molte delle risposte che servono per affrontare il presente con forza e dignità, senza sbandamenti. “Tra il 1876 e il 1914 emigrarono all’estero ben 14 milioni di Italiani in cerca di lavoro e di fortuna. Nel 1910 New York divenne la quarta città italiana dopo Roma, Milano e Napoli. Emigrare per molti fu un dramma e una grande sofferenza umana. Lasciare la propria famiglia, la casa, la patria, corrispondeva a fare un salto nel buio”. In queste quattro righe c’è tutto ciò che serve non dico per cambiare idea sull’immigrazione, ma almeno per cambiare atteggiamento rispetto alla questione. Per ritrovare la nostra identità, il vero onore e la vera forza basterebbe tornare sui libri di terza media.
Nel testo, si avverte una divaricazione forte tra il periodo dell'infanzia – caratterizzato dallo slancio vitale e generoso – e un dopo che fa paura, perché implica necessariamente una perdita. Eppure al tempo stesso L'ultima volta che siamo stati bambini è anche un romanzo di formazione, che dimostra che per diventare adulti è necessario accettare e attraversare il dolore. Perché è importante che questi due aspetti coesistano e, in qualche modo, si completino?
Il racconto di ciò che eravamo e di ciò che siamo diventati, di cosa è rimasto e di cosa è andato irrimediabilmente perduto è il tema di ogni romanzo di formazione. Mondi che collidono, reazioni a catena, forze che si attraggono e si respingono. È così che si diventa adulti.
Per scrivere un romanzo bisogna porsi le domande giuste ed essere in grado di dare le risposte più oneste e significative. Ogni autore si chiede Chi sono i miei personaggi? Come sono diventati ciò che sono? Le risposte si trovano immancabilmente nel confronto, spesso traumatico, tra le aspettative e la realtà. Basta saper guardare. Basta non trascurare ciò che appare trascurabile. Il primo ginocchio grattugiato sull’asfalto non intacca solo la carne, intacca il mito infantile dell’immortalità.