La storia letta e raccontata attraverso gli occhi di Micol, una bambina ebrea che vive a Tripoli con la propria famiglia, felice e benestante, intorno alla metà degli anni Sessata. È lei il personaggio principale della prima parte del romanzo di Daniela Dawan.
L’incipit concitato impone al lettore i terribili momenti della persecuzione degli ebrei tripolini nel giugno del 1967, in seguito all’eccitazione e al delirio antisemita che si era impadronito delle popolazioni arabe durante la guerra dei Sei Giorni, poi persa da Nasser, il nuovo e acclamatissimo leader egiziano dell’epoca. La crisi sembra piombare sulle teste di questo nucleo familiare come se non ci fosse mai stato nemmeno il segno di un’avvisaglia. Al punto che i genitori, per fuggire, si trovano costretti a lasciare momentaneamente Micol a scuola dalle suore dove, unica ebrea, frequentava regolarmente gli studi anche se senza eccellere nel profitto, né ricordare mai quello che insegnavano.
Nei pochi momenti che inaugurano la narrazione, l’abilità di Dawan ci fa conoscere le diversità di approccio alle emergenze e alle crisi dei diversi componenti della famiglia ebrea, ma soprattutto ci dice quali fossero i caratteri dell’antisemitismo praticato dalla chiesa cattolica, in particolare dalle suore in questione, che continuamente rappresentavano alla giovane Micol l’essere ebrea come una colpa grave.
Imbarazzante, per il lettore italiano, sono poi le reazioni dell’ambasciata italiana a Tripoli che sembra non riuscire a distinguere la necessità prioritaria di offrire riparo agli ebrei, i più a rischio, invece che genericamente ai cittadini italiani non ebrei.
La fuga comunque si compie. Intense sono le righe in cui alcuni dei protagonisti si trovano a dover improvvisamente e repentinamente fare i conti con la separazione dalle cose di una vita, dagli oggetti che li legano a ricordi importanti. Inizia quindi un’altra storia, fatta di flashback e sempre di traslochi e di spostamenti. Poco a poco ci si rende conto che la dimensione storica, di cui il libro è ricco con dovizia di particolari, lascia spazio alle vicende umane e personali pur senza staccarsene mai. Micol cresce. La storie dei suoi genitori e della sua famiglia acquistano profondità umana e cronologica fino ad arrivare a Firenze e Livorno, nella prima metà del Novecento, prima della scelta di trasferirsi in Libia dove trovare una comunità multietnica, in cui convivevano pacificamente arabi, ebrei, greci, maltesi.
Tra il ricordo delle musiche di Carosone e la costatazione dei colpevoli disastri delle truppe inglesi in Africa, emergono con prepotenza due protagonisti di rilievo esistenziale che ci accompagneranno fino all’ultima pagina del libro: il Tempo e la Memoria.
Il tempo sembra assomigliare a un carrarmato che al suo passaggio tutto annienta e distrugge. Forse ci aiuta a lenire il dolore, forse però ci fa smarrire il nostro lato umano. La memoria sembra essere invece una funzione inutile se si è costretti continuamente a mutare luoghi e contesti, a vivere solo il presente sotto l’imposizione di urgenze immediate con l’incertezza della prospettiva.
Ecco perché il titolo così fortemente poetico. Qual è la direzione del vento è tratto dal Libro dell’Ecclesiaste che recita che il vento soffia a mezzogiorno poi a tramontana, poi gira e rigira… Da ciò si deduce che conoscere la direzione del vento è di decisiva importanza. Non c’è nulla di opportunistico in questo. Si tratta piuttosto di una sottolineatura della fragilità degli esseri umani che, per sopravvivere, hanno bisogno di trovare le condizioni favorevoli.
Molti degli elementi che caratterizzano la cultura ebraica sono presenti in questo libro. Si parla di identità, di aderenza ai riti e alle convenzioni, del rapporto con Dio. E c’è l’universalissimo tema della morte che nella storia di Micol costituisce un compagno di viaggio ben precoce, perché risale a una sorellina scomparsa giovanissima e che ritroveremo verso la conclusione.