Dalla febbre Ferrante non è mai stata immune. Anzi. «Ero sul palco del Mercadante a ritirare un riconoscimento che mi fa felice e quindi mi sono persa l’ultima puntata della serie. Ma la recupererò, sono anni che la seguo, ho capito di recente che ne sono stata ispirata», dice con la sua grazia, a tratti enigmatica, Jhumpa Lahiri. Ventiquattr’ore di lente camminate, lungomare e vicoli per l’autrice anglo-indiana che ormai vive tra l’Italia e gli Usa e scrive in italiano i suoi libri, da ieri Premio Napoli sezione Internazionale, per Dove mi trovo (Guanda). (...)
Jhumpa, le è piaciuta la trasposizione de L’amica geniale per la tv di Costanzo?
«Molto. Ero incuriosita da tempo, mi chiedevo quale sarebbe stato il suo approccio e la prospettiva con cui un regista poteva tradurre e convertire tutta quella storia e la sua sostanza. E mi è piaciuto quel lavoro: di filtro personale e di fedeltà al sedimento e alla temperatura dei personaggi. Tra l’altro scopro che in questo periodo sto tornando spesso alla mia lettura e al mio legame con i libri della Ferrante».
Spinta da cosa?
«A Siena, poche settimane fa, all’università abbiamo parlato della sua opera con la docente Tiziana de Rogatis che ha scritto un libro illuminante, Parole chiave (e/o): nel leggerlo, ho scoperto una certa corrispondenza tra il mio Dove mi trovo e i temi di Lila e Lenù: come l’idea che tutto giri intorno a un vuoto fisico e anche esistenziale. Tiziana ad esempio scrive dell’“antitesi tra appartenenza e sradicamento” e questa chiave è anche una lettura dei miei libri».
La “smarginatura” in cui rischia di liquefarsi Lila è vicina alla sua protagonista donna, che sente tutto scivolare intorno a lei, senza certezze?
«Sì, perché tutto verte sull’idea che i confini non sono certi, il radicamento vero non esiste e l’identità è sempre fluida. Questo è molto presente nella tetralogia. Ovviamente io non pensavo assolutamente alla saga di Ferrante quando ho scritto. Ma adesso vedo temi che ci legano. D’altro canto, la scrittura è sempre un risposta alla lettura. E sono molto colpita dal legame forte che in questo periodo riesplode anche grazie la serie».
Nel 2014, ha scritto alla Ferrante una lettera pubblica, a cui lei ha risposto, dicendole che avrebbe voluto avere lo stesso coraggio di diventare “invisibile”. Lo pensa ancora? La “invidia” sempre, per questo?
«In un certo senso è così. In quel periodo ero a Stoccolma, presa tra presentazioni, promozioni, incontri: le cose che facciamo noi autori. Il paradosso, per così dire, è che noi che ci mostriamo continuamente siamo più spinti ad assumere una maschera o ritrarci. Mentre io, che avevo letto Frantumaglia della Ferrante, mi accorgevo di come lei, dietro la scelta di rendersi non raggiungibile fisicamente, fosse in realtà più aperta, più solerte nelle risposte ai lettori, più trasparente, più capace di aprirsi».