Non è semplice essere bambini in tempo di guerra, soprattutto se della guerra in corso non si capisce molto. La prospettiva che apre la narrazione è quella della percezione prima popolare, e poi più marcatamente ingenua e infantile degli eventi. Cosimo ha nove anni e mezzo e per lui la Storia (quella con la S maiuscola, che ha portato al confino suo padre e ha lasciato lui e suo fratello Sebastiano, detto Pisciasotto Secondo, con un nonno con un “talento particolare” per gli schiaffoni) si riduce di fatto a una carambola inspiegabile di cambiamenti di fronte:
è caduto il fascismo e la guerra sta per finire, anzi no, scusate, il fascismo è tornato e la guerra va avanti. Giornate strane, indecifrabili. In tanti gioivano per le strade, e tanti altri si erano rintanati per paura delle rappresaglie. Poi, all’improvviso, si erano dati il cambio: i gioiosi a casa e i paurosi di nuovo fuori a fare la voce grossa. Alla fine nessuno aveva capito più nulla e si erano rintanati quasi tutti. (p. 9)
La grande capacità dei bambini, in un’epoca in cui un problema concreto è la limitazione dei confini, dello spazio d’azione, è quella di riuscire a fare del cortile tra i palazzi un universo, in cui lanciare le biglie, vincere battaglie, allestire ospedali da campo e quartier generali, lanciarsi in corse spericolate.
Accanto a Cosimo ci sono Vanda, orfanella dalle ossa grandi e un grande cuore; Italo, piccolo balilla che sogna la gloria e ha avuto la sfortuna di nascere secondogenito dopo un eroe, insignito pure di medaglia al valore; e Riccardo, che “non è il più furbo, non è il più forte, non è il più simpatico”, ma sa come essere amico, nel senso più profondo e pieno del termine. Solo che, “nell’inquietudine di una città che da mesi ormai dorme sui frantumi dei sogni di gloria” (p. 23), un giorno Riccardo non si presenta all’appello, e neppure il successivo, né quello dopo ancora. Qualcuno lo ha “rubato” e la notizia si abbatte con l’impatto di una deflagrazione sui compagni di giochi, ma anche sul lettore, che improvvisamente si rende conto di qualcosa che prima non aveva capito – perché, nella continua focalizzazione interna della narrazione sui piccoli protagonisti, il dettaglio era in fondo irrilevante:
“Chi? Chi ha rubato Riccardo?” […]“I tedeschi!”“I tedeschi? E perché se lo sono rubato?”“Mica solo lui! Hanno rubato un sacco di persone, sabato, al ghetto”. […]“Non doveva mischiarsi con quella gente”.“Quale gente?” chiede Vanda. “Viveva con i genitori”.“È uguale! Non è il momento giusto per essere ebrei né per vivere al ghetto! Lo vedete cosa succede poi?”“Ma perché hanno rubato pure lui? Cosa ha fatto?”Cosimo scuote la testa, non ne ha davvero idea. “Gli ebrei sono nemici del fascismo e dei tedeschi. Per questo li rubano” dice Italo.“Ma lui non ha mai fatto niente di male. Non è un nemico cattivo”.“Lui no, certo, ma mettiti nei panni dei tedeschi. Che fai, separi un figlio dai genitori?” (p. 24-25)
La prospettiva straniante e la totale incomprensione delle dinamiche politiche da parte dei bambini sono il motore della trama: per quanto cerchino spiegazioni razionali e vadano “sommando treni e prigionieri alla ricerca di un risultato che continua a sfuggir[e]” (p. 25), Cosimo, Vanda e Italo si imbattono solo in spiegazioni vaghe e insoddisfacenti e in adulti che, seppur in buona fede, si mostrano totalmente inadeguati. A tutti loro è però chiaro un fatto: Riccardo deve essere restituito. Perché questo avvenga, è necessario andare a trovarlo nel campo in cui l’hanno portato e parlare con i tedeschi (in fondo non deve essere difficile: hanno a disposizione una mappa e Vanda conosce qualche parola nella loro lingua).
L’idea su cui Bartolomei innesta la storia è lineare, pulita, efficace: per ritrovare un amico (o forse per riportare la pace? O perché la guerra non inizi mai?), serve un atto inconsulto, folle, completamente innocente. Serve guardare alla deportazione come a qualcosa di semplicemente inconcepibile – e inconcepito – e decidere con un po’ di sana incoscienza che a volte per chi si ama vale la pena di correre qualche rischio:
“E quanto ci vorrà?”“Molto più di un paio d’ore, ma cosa cambia? Se torniamo di sera ci picchiano, se torniamo dopo due giorni ci picchiano lo stesso”. (p. 39)
È così che i tre si imbarcano nella “missione più lunga e più vera” della loro vita, in una marcia che si prolunga molto di più di quanto preventivato, e che ha un costo molto più alto, per loro e non solo per loro.
I bambini e la guerra costituiscono un binomio pericoloso: è difficile essere originali, difficilissimo non cadere nel moralismo. Fabio Bartolomei però riesce, e splendidamente, con un’opera che in più punti commuove, ma che più spesso fa sorridere; che non cede al disincanto, ma riesce a sovvertire i luoghi comuni e le facili aspettative del lettore con ironia e grande senso dell’equilibrio narrativo:
Per ultimo [Italo] indossa il fez e inizia a marciare sul posto. “Che ne dite?” “Sei perfetto” commenta Vanda.“Questo lo so, sono ariano”.“Che significa?”Italo la guarda con espressione sconfortata. Orfana e pure ignorante. (p. 90)
Sulla trama principale, riescono a innestarsi riflessioni profonde (per esempio sulle responsabilità, le colpe dei padri: “Abbiamo fallito tutti, è evidente. Una nazione in guerra è il posto peggiore dove far crescere i figli, soprattutto quando si sta perdendo. Questo lo sapevamo anche prima di schierarci, ma qualcuno ha deciso per tutti noi di accettare il rischio”, p. 83). In altri momenti, si aprono scorci di poesia, come quando i bambini si imbattono nel prato perfetto, il prato “ariano” e si lanciano in una corsa forsennata, facendo per la prima volta l’esperienza della milza che pulsa, e della vera libertà:
Vanda rallenta, si mette una mano sul fianco, si piega in avanti ridendo a crepapelle. E più ride, più la milza le fa male. Si sdraia scomparendo tra l’erba. Italo e Cosimo la imitano, fingono di avere anche loro male alla milza perché di quel momento vogliono condividere tutto. (p. 113)
Tutti i fili vengono mossi, alternati, equilibrati dall’intelligenza narrativa dell’autore, che ha molti meriti, ma su tutti quello di non optare per le scelte più scontate (e magari attese) dal suo pubblico. Perché anche se “a dieci anni l’adesso è eterno. […] Sarà giorno per sempre, cammineranno sotto un sole tiepido per sempre, giocheranno a rincorrersi per sempre” (p. 96), anche se durante il viaggio – che pare anch’esso eterno – è facile scambiarsi promesse, il titolo ci dice però che ci sarà un dopo, con cui sarà necessario fare i conti e da cui sarà necessario guardare indietro.
Essenziale e delicato fino all’ultima pagina, L’ultima volta che siamo stati bambini conferma l’impressione iniziale di un libro da leggere e rileggere, da regalare e portarsi in borsetta, perché il modo in cui l’autore accudisce i suoi personaggi è raro e bello, e la pietas che emerge dal testo diventa valore fondamentale da accogliere e trattenere, da adattare a tempi nuovi.