Anche un libro molto bello può essere una casa.
Da parecchi anni, per me, i libri di Fabio Bartolomei sono un porto sicuro, un luogo felice dove rifugiarmi, dove stare sempre bene, dove trovare profondità e grazia.
Ne ho avuto l’ennesima conferma leggendo L’ultima volta che siamo stati bambini, da oggi in libreria per edizioni e/o.
L’ultima volta che siamo stati bambini
1943.
La Seconda Guerra Mondiale è in stato avanzato, la resa è vicina ma l’Italia è ancora martoriata dalla violenta presenza degli ingombranti ex-alleati tedeschi e il popolo sopravvive spaventato e affamato.
Sono i tempi in cui chiunque può essere un infame.
A Roma, quattro piccoli moschettieri si divertono ancora a giocare insieme, nonostante le macerie, il coprifuoco, la miseria e la fame.
Cosimo vive con il fratellino e con il burbero e severo nonno. La mamma s’è ammalata ed è morta, il papà è stato portato via tre anni prima e da allora non sono più arrivate sue notizie.
Vanda, bambinona corpulenta dal cuore grande come la sua fantasia, è stata abbandonata ancora in fasce all’orfanotrofio e accolta da Suor Agnese con un affetto ben più grande di quello riservato alle altre bambine.
Italo, figlio di un fascista, è un piccolo e fiero balilla che vive all’ombra dell’eroico fratello Vittorio, ferito in battaglia e acclamato dall’esercito, dal partito e dalla famiglia.
Poi c’è Riccardo, coraggioso, buono, generoso; è il collante del gruppo, quello che riesce sempre a far sorridere tutti, l’amico che arriva nel momento del bisogno, la solida spalla su cui contare.
Riccardo è anche ebreo e, in un giorno d’ottobre, sparisce improvvisamente, portato via dai soldati tedeschi, senza alcuna spiegazione.
Italo scuote la testa con espressione severa.
«Non doveva mischiarsi con quella gente».
«Quale gente?» chiede Vanda. «Viveva con i genitori».
«È uguale! Non è il momento giusto per essere ebrei né per vivere al ghetto! Lo vedete cosa succede poi?»
«Ma perché hanno rubato pure lui? Cosa ha fatto?».
Cosimo scuote la testa, non ne ha davvero idea.
«Gli ebrei sono nemici del fascismo e dei tedeschi. Per questo li rubano» dice Italo.
«Ma lui non ha fatto niente di male. Non è un nemico cattivo».
«Lui no, certo, ma mettiti nei panni dei tedeschi. Che fai, separi un figlio dei genitori?»
I tre moschettieri rimasti, ancora scossi dalla fulminea sparizione del loro amico, decidono di partire per andare a cercarlo, lasciandosi alle spalle gli adulti, che non stanno mai a sentirli, che sono induriti dalla guerra e dalla vita, che non li aiutano a comprendere cosa stia accadendo attorno a loro.
Come il nonno di Cosimo, che ha visto sparire il figlio e da allora ha il cuore così incattivito che per proteggere i nipoti sa usare solo minacce e schiaffoni.
La guerra che aveva fatto lui aveva un senso, pensa il nonno. Bisognava ricacciare indietro gli austriaci. Questa guerra invece non la capisce proprio. Hanno mandato i ragazzi in Grecia, in Africa e in Russia ma nessuno dovrebbe mai combattere fuori dal proprio Paese. Prima o poi si perde quando si fa così. E poi tutti questi nuovi nemici. A dar retta ai fascisti dovrebbe denunciare metà delle persone con cui ha condiviso la trincea prima e il lavoro dopo. Ma lui ne ha viste di cose, sa come va il mondo. Quando un politico ti indica un nemico bisogna pensarci due volte prima di dargli retta. Il vero nemico, facile riconoscerlo, è quello che con la guerra, qualsiasi tipo di guerra, si arricchisce. Altro che impero e sacri confini, non lo fregano più. L’unico impero per lui è la famiglia, e il sacro confine è la porta di casa.
Partiti alla ricerca del distante ed enigmatico Campo – luogo che immaginano simile a un campeggio e in cui sospettano sia stato portato Riccardo – Italo, Cosimo e Vanda si sentono per la prima volta liberi, entusiasti padroni della loro avventura; il timore iniziale lascia spazio alla consapevolezza di riuscire ad andare lontano, mossi dalla voglia di salvare il loro amico e dal sogno di tornare poi a casa, osannati come eroi.
Ma la fatica e la fame non tarderanno a farsi sentire e i tre bambini, sul loro cammino, incontreranno una variegata umanità, plasmata – nel bene e nel male – dall’orrore guerra.
«Davvero pensavi di giocare con noi per tutta la vita?» Lo interrompe Vanda.
«Certo. Tu no?»
Lei ci riflette su, arrotola intorno al dito una ciocca di capelli.
«Sì, anche io a volte, però lo so che da grandi cambia tutto. Quando si cresce non si pensano le stesse cose di adesso».
«Allora dobbiamo promettere di diventare dei grandi diversi».
Sulle tracce dei piccoli eroi, in un inseguimento faticoso e sofferto, Suor Agnese e Vittorio ci mostrano, passo dopo passo, il potere della fede e, soprattutto, la forza dell’amore.
Bartolomei, che già con We are family e lo sfavillante Al Santamaria ci aveva regalato un indimenticabile sguardo fanciullesco sul mondo, con L’ultima volta che siamo stati bambini rinnova il suo ormai consolidato talento di narratore sensibile, carezzevole ma anche brillante e spiritoso, mettendoci di fronte alla commovente innocenza di questi nuovi giovanissimi protagonisti.
All’ultima pagina, con gli occhi lucidi e il sorriso malinconico di chi non lascerà mai più andare i protagonisti della storia, a noi lettori resta in eredità un’importante conclusiva riflessione: i bambini di allora sono gli anziani di oggi, quelli che dobbiamo assolutamente ascoltare quando ci spronano a opporci in ogni modo al ritorno del fascismo.