Steven Craig Zahler è uno degli autori emergenti più interessanti nel panorama del cinema di genere. Nato come scrittore, ha esordito alla regia con Bone Tomahawk, un western che sfocia nell’horror e nel massacro. I suoi film sono caratterizzati proprio da un lento, quanto inesorabile, percorso verso l’iperviolenza, mai catartica o estetizzata.
Uno dei suoi ultimi film, di cui è stato sceneggiatore, ma non regista, è Puppet Master – The littlest Reich, reboot di una lunghissima serie di film (quasi una dozzina) con al centro un gruppo di pupazzi assassini.
Ora, al netto della premessa che è molto più pittoresca di quanto poi apparirà nel film vero e proprio (a tratti insostenibile per la violenza), Zahler prende questa storia piuttosto seriamente: i pupazzetti, infatti, sono, come fa intuire il titolo, delle specie di SS, creati solo Dio sa come da uno scienziato nazista. L’espediente di deumanizzare completamente quei mostri riesce a far emergere, senza mezze misure e senza filtri di sorta, tutto l’orrore e l’atrocità che pulsava al cuore del nazismo. Ovvero, Zahler riesce a mettere in scena la violenza che lo pervade, dai livelli più alti a quelli più bassi.
Al termine del film, con tutta la sua sequela di iperviolenza sbattuta in faccia allo spettatore, consapevoli che quella che si è vista non è nemmeno un centesimo della crudeltà che è stato nella realtà il nazismo, e che esso non ha mai fatto nulla per celare questa sua crudeltà, violenza, orrore, sorge piuttosto spontanea una domanda: come è possibile che sia riuscito a salire al potere? Come è stato possibile accettarlo? Va bene l’umiliazione del Trattato di Versailles, va bene la crisi della Repubblica di Weimar, ma nulla riesce a spiegare veramente come possiamo averlo permesso. Come una feccia profonda come quella nazista sia riuscita a imporsi nel cuore dell’Europa degli anni ’30, civilizzata e democratica.
A questa domanda, prova a rispondere L’ordine del giorno, il nuovo libro di Éric Vuillard.
ATTRAVERSO LO SCHERMO
L’ordine del giorno è, più che un romanzo, un saggio narrativo. Vuillard, infatti, basandosi sulle trascrizioni dei processi e delle intercettazioni, ricostruisce alcuni episodi centrali nell’ascesa nazista, in un periodo di tempo che va dal 1933 (l’incontro fra alcuni dei più potenti industriali tedeschi dell’epoca e Göring) all’Anschluss, ovvero l’annessione dell’Austria da parte della Germania nazista nel 1938. Fin dalle prime pagine, Vuillard prende le distanze da qualsiasi intento finzionale:
“Si dice che la letteratura consenta tutto. Potrei quindi farli girare all’infinito sulla scala di Penrose, non riuscirebbero più a scendere né a salire, farebbero sempre entrambe le cose nello stesso tempo”.
Ma la Storia procede e così Vuillard decide di attenersi unicamente a quello che è accaduto, per evitare ennesime mistificazioni.
L’intenzione di Vuillard è infatti quella di rendere chiaro ciò che furono quegli anni, andando oltre la narrazione nazista, cioè “bisogna riavvolgere il filo per capire bene, bisogna dimenticare quel che si crede di sapere, bisogna dimenticare la guerra, disfarsi dei cinegiornali dell’epoca, delle montature di Goebbels, della sua propaganda”.
Vuillard ricostruisce diversi episodi, in particolare l’incontro fra ventiquattro industriali e Göring, con lo scopo di finanziare il partito nazista in cambio dell’assicurazione di stabilità e sicurezza (e niente più elezioni per cento anni), e l’Anschluss. Ma anche episodi apparentemente minori, come la storia del pranzo tenutosi a casa di Chamberlain per salutare il ritorno in patria dell’ambasciatore Ribbentrop (quel Ribbentrop) proprio durante l’annessione dell’Austria.
Su tutti spicca (letterariamente parlando) l’incontro fra Schuschnigg e Hitler, il 12 febbraio 1938, in uno chalet in Baviera. Schuschnigg era il dittatore (anche lui di estrema destra, ultra-cattolico) dell’Austria. Fu minacciato, umiliato e costretto a firmare un trattato in cui, più o meno implicitamente, cedeva l’Austria alla Germania, dando il via all’Anschluss.
Quando Vuillard ripercorre l’incontro fra Schuschnigg e Hitler, lo fa deridendo il vecchio dittatore austriaco, mostrandone tutti i limiti, l’inadeguatezza e la piccolezza. Questa derisione percorre tutto L’ordine del giorno. Quella di Vuillard è infatti una scrittura che senza mai essere ironica, tende a privare di ogni grandezza implicita il regime nazista, che tanti cinegiornali e tanti film di Leni Riefenstahl ci hanno trasmesso. Vuillard non fa nulla per nascondere il suo disprezzo verso il nazismo e chi ne ha permesso l’ascesa. L’ordine del giorno quindi mostra, prima di tutto, la piccolezza del regime nazista, demistificando la sua potenza. Al che, la domanda con cui si è partiti, si fa ancora più importante: com’è riuscita una feccia così violenta e così infima a imporsi?
CECITA’
Torniamo, di nuovo, all’Anschluss, ovvero la marcia trionfante dell’esercito nazista dopo l’annessione burocratica dell’Austria. Vuillard la descrive come “solo un ingorgo di Panzer. È solo una gran quantità di motori in panne sulle strade nazionali austriache, solo il furore degli uomini, una parola arrivata dopo, come una brillante giocata di poker”.
La risposta di Vuillard alla domanda cosa abbia permesso l’ascesa del nazismo è tanto semplice, quanto cupa: la cecità.
“In questa guerra la cosa che stupisce è il successo inaudito della faccia tosta, dal quale si trae un insegnamento: il mondo cede al bluff. Anche il mondo più serio e più rigido, anche il vecchio ordine, per quanto non ceda mai all’esigenza di giustizia, per quanto non si pieghi mai al popolo che insorge, si piega al bluff”.
I diversi aneddoti raccolti ne L’ordine del giorno hanno infatti in comune tutti un non vedere il nazismo, le sue conseguenze, ma ancora prima di tutto il suo presente. Una cecità che permette a una farsa di divenire tragedia. Però, quando si parla di cecità non si deve pensare a un’incapacità del Vecchio Mondo, politico ed economico, di rendersi conto dell’orrore che gli sta germogliando in seno e che viene favorito. Cioè, se in parte è così (come per esempio con il Primo Ministro inglese Chamberlain), Vuillard ci mette di fronte a una cecità volontaria e in mala fede. Non a caso ad aprire e chiudere gli aneddoti è l’attenzione verso i ventiquattro industriali che, finanziando prima l’ascesa del partito nazista e poi installando fabbriche all’interno dei campi di lavoro, hanno consolidato i loro imperi economici – che, tra l’altro, sottolinea Vuillard, persistono ancora oggi.
L’ordine del giorno è tanto inquietante perché ci fa capire che l’ascesa del nazismo non è stata per nulla un’ascesa irresistibile, tutt’altro: sarebbe stata arginabilissima ed evitabilissima, se solo si fosse voluto vedere.
SAGGIO SULLA LUCIDITA’
Ma c’è chi ha visto. Vuillard ricorda come, appena prima dell’Anschluss, ci furono più di millesettecento austriaci che si tolsero la vita. “Nessuno può ignorare i motivi di quei gesti. Nessuno. D’altronde non si deve parlare di motivi, ma di una sola e unica causa”, ovvero l’avvento del nazismo, o, meglio, ciò che comportava questa sua ascesa. Dietro i festeggiamenti, i lustrini e la gioia che accolsero i carri armati tedeschi in Austria, emerge tutta la violenza e la crudeltà: “Helene Kuhner ha dovuto sentire l’odio e il tripudio. In un raptus terrificante ha probabilmente intravisto dietro quelle migliaia di figure e di facce milioni di forzati. Ha intuito, dietro la spaventosa letizia, la cava di granito di Mauthausen. Allora si è vista morire”.
Il vedere, il non chiudere colpevolmente gli occhi (per incapacità, mala fede o crudeltà), non è, però, un atto pacifico, tutt’altro. Se i suicidi stanno lì a testimoniare quanto sia insostenibile lo sguardo della Gorgone nazista e del suo abisso, il vedere, dopo tutte le atrocità che sono state permesse, è anche un castigo, forse il più grande. È proprio il castigo che aspetta uno degli industriali che finanziarono il nazismo, Gustave Krupp, che, durante una cena con la propria famiglia, si vede attorniato da una folla emaciata e derelitta che non riconosce:
“ebbe la sensazione di vedere davvero, di non aver mai visto tanto come in quel momento. Ciò che vide, ciò che sorgeva lentamente dall’ombra, erano decine di migliaia di cadaveri, erano i condannati ai lavori forzati che le SS gli avevano fornito per le sue fabbriche. Sbucavano dal nulla”.
L’ordine del giorno, quindi, riconosce quanto sia duro e devastante un atto come il vedere, ma ne ricorda l’importanza, e soprattutto il crimine che è la cecità. Per questo si propone di essere lo scudo di Perseo, che permette di guardare Medusa senza rimanervi pietrificato. Come mette bene in chiaro nelle ultime righe Vuillard, questo è fondamentale perché, a differenza della creatura mitica, se il nazionalsocialismo hitleriano può essere passato, non lo è la violenza nazista.
L’ABISSO
Particolarmente incauto sarebbe, infatti, ritenere che il nazismo nasca e muoia nel giro di dodici anni. Quello a cui vale la pena di pensare, in prospettiva, è piuttosto la definizione di ipernazismo, di cui il nazionalsocialismo è stato uno degli epifenomeni.
Gli iperoggetti, per Timothy Morton, sono “entità diffusamente distribuite nel tempo e nello spazio”, così grandi da risultare quasi impossibile comprenderli o anche soltanto vederli nella sua interezza. Il nazismo è un iperoggetto perché, proprio come il cambiamento climatico, il Capitale, il petrolio di cui parla Morton, si dispiega in uno spazio geografico, ma soprattutto temporale, così ampio che è afferrabile soltanto nei momenti separati in cui si realizza. Alcuni di questi momenti: il campo di Treblinka; il massacro di Srebrenica; il linciaggio di Jesse Washington; Mayer Levin, con Compulsion, ne individua un altro nell’omicidio di Robert Franks. E così via. Ma ognuno di questi epifenomeni non è altro che una singola parte di un’entità che è ben più grande della loro somma, proprio come il riscaldamento globale è più di semplici pioggia, temperatura e vento.
L’ipernazismo è subdolo proprio per questa sua esistenza multipla e indefinita. Quanto sarebbe più rassicurante credere che sia un episodio temporalmente delimitato e per di più nel nostro passato? All’opposto, l’ipernazismo – come gli altri iperoggetti – si caratterizza per una viscosità: è impossibile sfuggirgli. È ovunque, sempre. Siamo immersi dentro di esso. È impossibile vivere, leggere la realtà, senza trovarlo che vi soggiace. Ma questa non è una novità, basti pensare ai tentativi che facciamo, costantemente, di rapportare quello che succede ora a quello che successe, usando l’Apocalisse umana e sociale che ha portato come pietra di paragone – anzi, come vera e propria pietra dello scandalo di tutta la nostra storia. “L’ordine del giorno”, ma anche a modo suo Puppet Master – The littlest Reich, sono moniti fondamentali davanti all’ipernazismo e alla viscosità perché ci ricordano che
“non si cade mai due volte nello stesso abisso. Ma si cade sempre nello stesso modo, con un misto di ridicolo e di spavento”.
E la nostra unica, possibile, salvezza è quella di vedere l’abisso prima di caderci, o meglio, prima di lasciare che si apra, nuovamente, ai nostri piedi.