Ho sempre avuto un debole per i romanzi che avevano a che fare con il tempo, soprattutto quando si tratta di andare indietro. O per una regressione tramite ipnosi, oppure per un superpotere o per semplice immortalità, come Highlander. (Ricordate il film, con Christopher Lambert?)
Quando ho letto il titolo e la sinossi, pensavo che si trattasse dell’avventura di un ennesimo immortale, magari ispirata proprio al film appena nominato.
Si è rivelato, invece, qualcosa di più originale. E anche la lettura ha rivelato aspetti originali di un tema già affrontato in tante salse, lingue e maniere.
È la storia in prima persona di Tom Hazard, nato Estienne Thomas Ambroise Christophe Hazard, il 3 marzo 1581, in Francia, in un piccolo castello di proprietà dei suoi genitori. A causa di scontri religiosi (è il periodo controverso della repressione degli ugonotti), la famiglia ripara in Inghilterra, nel villaggio di Edwardstone nel Suffolk. Fin qui nulla di particolare. A parte il fatto che, ai giorni nostri, Tom è ancora vivo per raccontarci la sua storia.
Tom Hazard (questo sarà il suo nome principale, che ci servirà a conoscerlo meglio) soffre di una malattia estremamente rara, affascinante e spaventosa: non invecchia. O meglio, il suo ritmo di invecchiamento è lentissimo: un anno ogni tredici-quindici umani, circa. Ci tiene a precisare che non è immortale, come un Highlander, e non preserva sé stesso con diete particolari o appetiti contronatura. Non è un vampiro bloccato in un’eterna giovinezza: è un essere umano, mortale, afflitto da anageria. Una malattia pressoché sconosciuta, al punto da doverle inventare un nome per poterla definire. Un’anomalia del metabolismo per cui Tom, che in questo secolo dovrebbe essere ormai polvere di polvere, è vivo e ha un aspetto di quarantenne piuttosto in forma e un’età da testuggine.
Se siamo rimasti a bocca aperta, invidiandolo anche un po’, dopo alcune pagine cominciamo a ritrattare il nostro senso di meraviglia e ammirazione.
Se è affascinante l’idea di essere stato in piedi vicino a William Shakespeare in carne e ossa e poterlo raccontare nell’era degli smartphone (dimenticandosi che è meglio non farlo comunque, per evitare ricoveri forzati), e di poter girare per Londra ricordando che al posto del supermercatino all’angolo sorgeva uno dei teatri più frequentati dell’era elisabettiana, non lo è tanto quando ci si ricorda che contemporaneamente al genio letterario viveva un’intera società di uomini profondamente e irremovibilmente convinti dell’esistenza delle streghe.
E che Tom Hazard fosse il figlio di una di loro, se non un mago lui stesso.
Ricordiamo tutti com’era l’atteggiamento generale nei confronti delle donne sospettate di stregoneria?
Tom perfettamente, e per esperienza diretta.
Scampato per un pelo al rogo e ad altre misure cautelari (per gli altri) del genere, Tom si trova nella necessità di imparare velocemente a vivere in un mondo feroce e spietato per i diversi come lui. Incontra una giovane donna della sua stessa età (almeno apparente), se ne innamora profondamente ricambiato. È un amore già condannato, ma questo non impedisce ai due di viverlo con un’intensità moltiplicata, e anche tinta di affanno, e di angoscia. In un’epoca sospettosa come quella, le persone si accorgono prima quando c’è qualcosa di appena fuori dell’ordinario, e l’aspetto immutabile di adolescente di Tom attira sussurri. Non ha mai smesso, in realtà. Anzi.
La vicenda amorosa ha il suo corso, le sue conseguenze e il suo solco. Tom gira il mondo, letteralmente, per poter vivere passabilmente tranquillo, per sfuggire ai ricordi che sono sempre molto vividi, e in cerca di qualcosa. Durante i suoi vagabondaggi secolari, incontra altre persone come lui, riunite in una misteriosa Società, che si occupa di trovare e di proteggere gli individui come Tom, ancora vivi dopo secoli, e di aiutarli a sopravvivere con facilità, tenendo anche lontana la curiosità invadente e pericolosa dei “normali”. Delle “effimere”, come li chiama Hendrich, il riferimento principale del protagonista, l’ancora di salvezza e il rifugio quando le situazioni precipitano o i dubbi si moltiplicano.
Quando ho finito di leggere il romanzo, mi sono domandata perché il titolo fosse Come fermare il tempo. Credevo che fosse la traduzione italiana a dare un’idea diversa da quella che mi ero costruita, ma l’originale inglese lo conferma: How to stop time. Per la sua struttura, A spasso nel tempo sarebbe stato più corrispondente, ma questo è vero solo in apparenza. Seguiamo Tom saltando letteralmente avanti e indietro nei secoli, dal XVI con Shakespeare e la grande bolgia londinese, in America agli inizi del secolo, di nuovo a Londra nel XIX, nello Sri Lanka ai giorni nostri, per tornare ancora a Londra, secolo attuale. Ogni tanto gira la testa, perché gli spostamenti sono rapidi: la memoria di Tom è purtroppo molto capiente, molto vivida e molto veloce. Non lo lascia davvero in pace, ed effettivamente… come potrebbe? Le sue esperienze sono cento volte più numerose e intense di quelle di un’effimera, non si può pensare che non abbiano conseguenze su di lui, sul suo spirito e persino sul suo corpo.
Per una persona come lui, fermare il tempo diventa la meta più desiderabile. Ed è quella la ricerca vera e propria, che si nasconde sotto un’altra missione che si è preso all’epoca del penny elisabettiano che si porta ancora in tasca. E alla fine comprende come può fare… ma dovrete leggere le ultime pagine.
Quelle parole rappresentano forse l’unico momento sereno e pulito di una narrazione sempre molto intensa, pervasa di rimorso, un sottile senso di pericolo e di spada incombente sulla testa. E anche un pizzico di humour, che stempera e fa ricordare che nonostante tutto, la situazione può avere i suoi lati divertenti, anche grotteschi.
Mi è sembrata un’evoluzione più adulta del tema “a spasso nel tempo”, ripulita da risvolti eccessivamente romantici o troppo fantastici. L’autore ha dato una versione verosimile di quello che capiterebbe se un essere umano invecchiasse molto più lentamente del solito, andando a dare un’occhiata anche agli aspetti pratici e a quelli meno romanzeschi. L’effetto di una memoria prodigiosa e invadente sul fisico, il senso di precarietà portato all’estremo, una certa noncuranza verso i carichi sentimentali e l’importanza data a particolari di nessun significato.
È un libro che si fa ricordare, quando lo si ripone sullo scaffale. Fa pensare al rapporto con il tempo e quanto lo si mitizza, o lo si elegga a tiranno, padrone, elemento sfuggente. E se ci fosse una possibilità diversa di vivere il tempo? O di viverlo senza caricarlo di importanza?