Fortunata. Un aggettivo forgiato nell'oro della buona sorte, che fa pensare a giorni sereni, a vincite inaspettate, a successi in grado di irradiare la propria brillantezza nella vita di individui che non devono più sentirsi spaventati dalle tenebre. Fortunata, però, è anche l'aggettivo che la scrittrice Alice Sebold usa nella sua opera d'esordio, Lucky, in cui racconta lo stupro che subì all'Università di Syracuse nel 1981, quando aveva diciannove anni. Un'opera che, nel 2018, la casa editrice E/O ha pubblicato con una nuova introduzione dell'autrice stessa, che parla al proprio pubblico, che lo spinge ad alzarsi in piedi contro una società che non sembra aver fatto alcun passo avanti nelle ultime tre decadi e che, invece, si inginocchia davanti a “un molestatore seriale nonché orgoglioso palpeggiatore di figa”, in grado di essere “eletto quarantacinquesimo presidente di questi Stati Uniti”. La Sebold sembra proprio voler insistere sulla parola questi, solleticando le sillabe con una dose evidente di disprezzo dal quale non si tira indietro e con il quale prepara il suo pubblico alle pagine che seguiranno, quelle in cui verrà definita fortunata solo per aver potuto mantenere il proprio diritto inalienabile di rimanere viva.
Lucky non è un libro facile da leggere, né tantomeno è semplice parlarne. Si potrebbero usare moltissimi luoghi comuni per descrivere il resoconto dettagliato di una ragazza che, a seguito di uno stupro, si rende conto che la sua vita non potrà mai essere più come quella di prima. E' un pugno allo stomaco, una lettura dell'orrore, un insieme di parole e immagini in grado di tormentarti anche quando hai finito di leggere e hai chiuso gli occhi. E' tutto vero, ma queste parole sembrano tuttavia non riuscire a rendere giustizia a quest'opera di Alice Sebold, rimasta in ombra rispetto alla sua opera più conosciuta, Amabili Resti.
Perché Lucky è un libro che ti fa provare rabbia. Non solo per lo stupratore, ma per tutti coloro che, al contrario, avrebbero dovuto far parte dei buoni. Dall'amica che è quasi disgustata all'idea di toccare il corpo violato di una ragazza a cui doveva fedeltà, ad una sorella che lascia che il suo sgomento sia più forte dell'aiuto dovuto a chi sta cercando di rimettersi in piedi. Da avvocati difensori che tentano di fare bene il proprio lavoro apparendo come mostri, a ragazzi che sembrano non sapere come comportarsi con una ragazzina che è stata fatta a pezzi e che mostra con orgoglio le proprie cicatrici, i punti in cui ha fatto passare pazientemente il filo della guarigione. Si prova rabbia persino per un'altra vittima, per un altro corpo offeso, che ha l'unica colpa di aver voluto tacere, di aver voluto nascondere la testa sotto la sabbia, fingendo che niente fosse cambiato, contribuendo, in questo modo, a creare il tessuto sociale in cui molte donne annegano ancora oggi, quando il male non viene portato alla luce per paura delle ripercussioni. Perché, di fatto, come suggerisce la stessa autrice, viviamo ancora in un mondo che è abituato a prendere di mira la vittima: a guardare la sua vita sessuale, a studiare i suoi abiti e le sue attività, il suo gusto nel bere alcolici. Ma Alice Sebold è stata fortunata. E' questa la prima cosa che si sente dire in commissariato, quando arriva a denunciare il suo stupro: che è stata fortunata. Perché è bianca, di fascia borghese e, soprattutto, ancora vergine. Perché il suo stupratore aveva la pelle nera. Non ha niente a cui i detrattori delle violenze sulle donne possano aggrapparsi. E quindi è fortunata. Diciannove anni, piena di lividi ed escoriazioni, addosso l'odore nauseabondo di chi l'ha stuprata. E fortunata.
Alice Sebold insiste molto su questo termine, ci gioca con spietata ferocia facendo sì che dietro la sillabazione di un aggettivo quasi quotidiano possa emergere una riflessione intensa e brutale sulla violenza sulle donne, sulla solitudine che sono costrette ad affrontare coloro che decidono di non arrendersi ad uno status quo che le vorrebbe vittime silenziose. Come un burattino dimenticato dal proprio burattinaio, Alice comincerà a provare un sentimento di straniamento dal mondo che la circonda: i suoi genitori la guardano in modo diverso, i fidanzati spariscono, le amiche distolgono lo sguardo, come se ogni cellula del suo corpo fosse, in qualche modo, un campanello d'allarme pronto ad avvisare gli altri di essere davanti a merce danneggiata. Ed è la rabbia per l'ingiustizia di simili atteggiamenti e della consapevolezza che essi sono spesso la norma, ad accompagnare la lettura del romanzo, soprattutto perché Alice non descrive se stessa come un angelo pronto a rialzarsi in piedi ad abbracciare il mondo. No. Lei è una ragazza piena di terrore, che scrive poesie su come uccidere il proprio predatore, che finge davanti a una giuria di essere più debole di quello che è affinché giustizia venga fatta, già sapendo che persino la legge risponde a regole che hanno più a che fare con l'immaginario di una società che con gli alti ideali che essa dovrebbe accompagnare.
Ed in questo pantano di crudeltà e orrore ad emergere c'è anche un seme di qualcosa di buono, qualcosa che da terapia si trasforma in arma. La scrittura. Attraverso la sua orrida esperienza, Alice Sebold inventerà se stessa come scrittrice: prima per testimoniare il suo stupro, poi per dare di nuovo peso alle parole che decidiamo di usare, perché ogni volta che parliamo di qualcosa di orribile, incidente o violenza stiamo togliendo qualcosa alla vittima, le stiamo strappando di dosso un lembo di dignità quando non facciamo nemmeno lo sforzo di riconoscere quello che ha subito, lo stupro che dovrà portarsi dietro per tutta la vita. Alice comincia a scrivere, si rialza in piedi, diventa la voce per tutti coloro che non hanno avuto la forza di alzarsi in piedi. Fortunata, allora, perché dai granelli di zolfo che le sono stati scagliati contro in un parco dell'università, è riuscita a tirare fuori qualcosa che somiglia non a un successo, ma a una rivincita.