La ragazza del convenience store, traduzione di Gianluca Coci, editore e/o, è il decimo e ultimo romanzo della quarantenne giapponese Murata Sayaka, un’originale opera che in Giappone ha avuto uno straordinario successo, aggiudicandosi il premio Akutagawa e diventando un piccolo caso editoriale. Il romanzo di Murata Sayaka, in parte autobiografico visto che la protagonista, come ha fatto per lungo tempo la sua creatrice, lavora come commessa in un konbini, sembra inserirsi a pieno titolo nella produzione letteraria post-Fukushima, incentrata sullo straniamento e l’incomunicabilità che caratterizzano i giovani giapponesi dopo il disastro nucleare del 2011 e chiamata dai critici “della precarietà”.
Giocato sull’antitesi normalità/anormalità, il romanzo ne ribalta gli schemi, sviluppando un intreccio molto lineare. Keiko è una trentaseienne single, proveniente da una famiglia “normale” che le ha dato un affetto nella media, ma nonostante ciò cresciuta “strana”, priva di ogni capacità di creare con gli altri un’intimità affettiva o fisica. Da ben 18 anni commessa part time in un konbini, piccoli supermercati a diffusione capillare e apertura non stop, la donna, solitaria e con pochissimi legami esterni al mondo del lavoro, sembra trovare in quel “microcosmo lucente” (un mondo perfetto, immutabile) la propria stessa ragion d’essere, finché non avviene un incontro destinato a segnare nella sua vita un’imprevedibile svolta. Un cambiamento cui fa seguito un epilogo liberatorio, nel quale Keiko compie un’irreversibile scelta, dettata non da condizionamenti esterni ma dal bisogno di sentirsi normale restando se stessa. Perché qualunque sia la vita che si conduce – sembra dirci l’autrice – in ufficio, in fabbrica o lasciandosi cullare dai mille suoni di un piccolo supermercato, l’importante è riuscire a darle “un senso compiuto”, e il mezzo che permette a Keiko di farlo, realizzando il proprio sogno di sentirsi come gli altri, è seguire sino in fondo la propria “anomala” unicità.
«Chiudo gli occhi e visualizzo l’interno del negozio. E la musica del konbini rinasce all’istante dentro di me. Fluisce nella mia anima come una soave sinfonia.»
Keiko è un personaggio molto interessante: ha alle spalle un passato “normale”, che non “giustifica” la sua diversità, della quale prende coscienza vedendo l’imbarazzo e la sofferenza, per lei del tutto incomprensibili, che provoca in chi le sta intorno, dai famigliari alle amiche, l’obiettivo primario dei quali sembra quello di aiutarla a “guarire”. Dotata di una disarmante e “primitiva” schiettezza che ricorda quella del Candido voltairiano, sebbene al suo confronto sia molto meno ottimista e acritica, la “ragazza del convenience store” si caratterizza anche per una mancanza di strutture morali “normali” che fa pensare al Meursault di Camus (a ricordarlo è soprattutto il pensiero del coltello che potrebbe facilmente far tacere il nipotino urlante).
La forza di essere diversi. “La ragazza del convenience store” di Murata Sayaka
Keiko reagisce agli “scandalosi” sintomi della propria diversità cercando di “migliorarsi” e omologarsi alla massa, sino al punto di adottare un comportamento camaleontico analogo a quello dello Zelig alleniano.
«Lancio uno sguardo furtivo a Sugawara e mi sforzo di imitare la sua espressione facciale come facevo all’epoca del trainig. “Roba da matti, quell’irresponsabile ci ha fregati ancora! – esclamo alla fine, muovendo gli stessi muscoli del viso e copiando persino le sue parole.»
Prigioniera del giudizio degli altri, che non capiscono il suo modo di essere e vivere come lei non comprende il loro, a causa della sua mancanza di certezze Keiko sente di non possedere un’identità definita, capace di chiarirle il “senso” del suo stare nel mondo. Ciò che la rende quanto mai “anomala” è il fatto che, a causa del suo singolare modo di essere, a garantirle identità e certezze è la dimensione del konbini, cristallizzata in un’ossessiva routine; un piccolo mondo dominato da regole ferree e altrettanto rigide gerarchie, adeguandosi alle quali la ragazza del convenience store “impara la normalità” e, per la prima volta in vita sua, si sente inclusa anziché esclusa.
«Ero una commessa perfetta perché applicavo alla lettera le istruzioni del manuale, ma non avevo la più pallida idea di cosa significasse essere una “persona normale” al di fuori del mio konbini, senza niente e nessuno che mi dicesse che cosa fare.»
Malgrado la sua totale mancanza di empatia, la protagonista de La ragazza del convenience store è inoltre lucidissima nell’analizzare il mondo intorno a sé, nel comprendere ad esempio che il male peggiore, a volte, è quello proveniente da un malinteso senso di amore/protezione, che a sua volta nasce dalla percezione dell’altro, anziché come tale, come propaggine di sé.
«Preferisce avere una sorella “normale” anche se piena di problemi, anziché una sorella “tranquilla” ma “anormale”, di un altro pianeta. In questo modo può ritenermi parte del suo mondo “normale”, l’unico che riesce a comprendere. È assurdo!»
Il bieco e a sua volta strambo Shiraha è l’emblema dello scroccone scansafatiche, pavido e insieme crudele, dedito all’autocommiserazione e ad addossare agli altri le colpe dei propri fallimenti, senza mai mettere in discussione se stesso. Grazie proprio a tali sue caratteristiche, l’uomo svolge un ruolo centrale nell’iter narrativo, perché permette alla protagonista di diventare consapevole della necessità di compiere una scelta definitiva tra la “normalizzazione” che la farebbe percepire dalla famiglia e dalla società tutta come finalmente “guarita”, e l’accettazione/valorizzazione di ciò che sente di essere.
La ragazza del convenience store, i cui personaggi sono delineati con tratto sicuro ed efficace, avvicina i lettori italiani alla realtà del Giappone attuale che, malgrado la popolarità di Banana Yoshimoto, al cui primo romanzo, Kitchen, è stato accostata La ragazza del convenience store, sia per i temi trattati che per il registro realistico con venature grottesche, nel nostro paese è ancora poco conosciuta. Una società sempre più improntata all’instabilità e alla scelta di vivere in solitudine (è in preoccupante diffusione, soprattutto tra gli adolescenti, il fenomeno noto come autoreclusione permanente o hikikomori), all’interno della quale un ruolo importante è svolto proprio dai konbini, piccoli supermercati che, oltre a soddisfare per 24 ore al giorno i più svariati bisogni dei clienti, compresi i fruitori di giornali cui permettono di leggerli gratuitamente, senza obblighi di acquisto né limiti di tempo, soprattutto in certi quartieri svolgono una funzione di aggregazione sociale.
La forza di essere diversi. “La ragazza del convenience store” di Murata Sayaka
Il romanzo sfiora il surreale, nella rappresentazione del camaleontismo e della impermeabilità a qualunque tipo di emozione della protagonista ma, a differenza dell’epopea alleniana di Leonard Zelig, si mantiene nei binari di un realismo tragicomico.
Dietro l’apparente immobilismo di una storia/non storia si cela un fermento di provocazioni e spunti di riflessione, dalla critica agli alienanti standard lavorativi giapponesi a quella nei confronti di un’omologazione sociale che stritola l’individualità e ghettizza i diversi, emblema della standardizzazione e dell’alienazione universali.
La ragazza del convenience store ha il sapore di uno struggente apologo sulla necessità di conoscersi (com’è breve il passo dalla Grecia antica del “conosci te stesso” al moderno Giappone…) e di modellare la propria vita su ciò che si è anziché su ciò che gli altri vorrebbero fossimo, nonché sul difficile cammino che occorre intraprendere per raggiungere un tale livello di consapevolezza.
Ma il romanzo è soprattutto una parabola sulla carica “sovversiva” della diversità che, nel momento in cui osa riconoscersi e accettarsi come devianza da ciò che è socialmente percepito come normale, sfidando il sentire comune (è “normale” avere relazioni erotico/sentimentali, fare figli e avere un lavoro dignitoso, o quanto meno porsi tutto ciò come traguardo della propria vita), trasforma la debolezza in inarrestabile forza.
L’originalità del messaggio dell’autrice è che, in questo variegato mondo, anche la routinepotenzialmente alienante di un acquario freddo e asettico dove tutto va avanti come un congegno perfetto può diventare fonte di equilibrio e riconoscimento identitario. Nella stralunata atmosfera del romanzo, sospesa tra il clima di un apologo gogoliano e quello del chapliniano Tempi moderni, in cui gli esseri umani non sono che ingranaggi di un sistema strutturato con rigida concatenazione, la destabilizzante (per gli altri) forza “nature” di Keiko, commessa-modello apparentemente servile verso colleghi e superiori, in realtà serva solo della propria esigenza di accettarsi come persona “diversamente uguale”, si dispiega in tutta la sua pienezza quando la ragazza trova finalmente il coraggio di scegliere. Dopotutto il segreto della vita, per dirla con Allen, è semplicemente basta che funzioni.
La ragazza del convenience store: la rincorsa/sfida alla normalità sociale di un’indimenticabile “anomala” in cerca d’identità.