È un corpo a corpo con la Storia quello che Éric Vuillard ha intrapreso da tempo, smontando e ricomponendo immagini, dialoghi, scene, certo che ciò che conosciamo del passato equivale spesso ad una sorta di «spettacolo» del quale ci limitiamo però a veder scorrere le sequenze, senza interrogarci sul loro significato. Un percorso, quello del cinquantenne scrittore e sceneggiatore di Lione, scandito nell’ultimo decennio da una serie di indagini in forma di romanzo che dall’ America precolombiana di Conquistadors, passando per la Rivoluzione francese di 14 Juillet, la conquista del West di Tristesse de la terre, l’eredità coloniale di Congo e le trincee della Grande guerra di La Bataille d’Occident – tutti inediti nel nostro paese -, giunge fino a L’ordine del giorno (Edizioni e/o, pp. 138, euro14), premiato lo scorso anno con il Goncourt.
Basandosi su una rigorosa ricerca documentaria, Vuillard esplora i confini di ciò che la letteratura può apportare alla Storia, partendo dalla convinzione che solo restituendo alle vicende del passato il loro respiro intimo, fatto anche di incertezze e meschinità che hanno segnato ogni «grande evento», si può trasformare il ricordo in consapevolezza. Perché, a suo giudizio, «la conoscenza funziona un po’ come un romanzo, ha la struttura di un’invenzione letteraria. Per questo, se le cifre e i dati possono essere sconvolgenti, per capire davvero un personaggio e un’epoca abbiamo bisogno del racconto».
Così, in L’ordine del giorno lo sguardo si posa, attraverso una serie di quadri che muovono dall’ironia al dramma, sulle élite europee degli anni Trenta del Novecento che per vigliaccheria, tornaconto o supponenza assecondarono o contribuirono all’ascesa del nazismo. Assistiamo così alla bizzarra sfilata di completi neri e cappelli di feltro degli industriali tedeschi convocati da Göring per raccogliere fondi alla vigilia delle fatidiche elezioni del 1933, che aprirono le porte del potere ad Hitler; ai gesti impacciati di Lord Halifax, ministro degli Esteri di Londra, arrivato in Germania per rassicurare i nazisti sulla volontà britannica di non interferire con le loro mire sull’Austria, che scambia il Führer per un domestico; all’esitazione del primo ministro inglese Neville Chamberlain che mentre i carri armati tedeschi invadono il territorio austriaco non trova educato interrompere il ministro degli esteri nazista von Ribbentrop impegnato in una estenuante dissertazione sportiva durante un ricevimento a Londra.
Éric Vuillard presenterà oggi il suo romanzo alla Libreria Stendhal di Roma (ore 17, Piazza San Luigi dei Francesi, 23).
Un pugno di episodi, al limite del grottesco per raccontare il modo in cui le élite europee aprirono la strada al nazismo. Come li ha scelti e cosa rappresentano?
Mi sono basato su foto, brani di cinegiornale, le memorie di alcuni dei protagonisti e gli archivi del processo di Norimberga. Perché è così che funziona il pensiero e si formano le opinioni: attraverso un flusso di materiali eterogenei in grado di provocare degli esiti talvolta spaesanti. Penso ad esempio ad una lettera di Walter Benjamin nella quale racconta che la compagnia del gas di Vienna decise di smettere di servire i suoi clienti ebrei perché alcuni di loro non avevano pagato le bollette. Il fatto è che proprio molti ebrei austriaci si suicidarono con il gas già alla vigilia dell’Anschluss, lasciando inevase le ultime fatture. Leggendo la lettera ci si chiede se Benjamin stesse facendo dello humor nero o dicesse la verità. O forse erano vere entrambe le cose, nel senso che l’ironia estrema diventa in questo caso uno strumento per rivelare la verità: il grottesco e il macabro funzionano meglio di qualunque analisi. Allo stesso modo, in questo libro ho cercato di rendere un «clima», di descrivere dei gesti apparentemente insignificanti: i piccoli passi che hanno però condotto al compromesso e alla resa nei confronti dei nazisti. Studiando le figure di Halifax, Chamberlain, del cancelliere austriaco Schuschnigg, che consegnò il suo paese a Hitler, dei Krupp, ha preso forma davanti a me il ritratto delle élite dell’epoca che da un lato trattavano il fascismo montante con rispetto, perché lo consideravano un valido antidoto al comunismo che tanto temevano, dall’altro guardavano ai suoi esponenti, come gli stessi Göring e Hitler come dei parvenu da trattare se non con aperto disprezzo con una certa dose di condiscendenza: in ogni caso, mai come dei nemici.
Il libro indaga il «prima» e il «dopo» l’orrore, né la guerra né la Shoah sono evocate in modo esplicito, perché?
Fin dall’inizio ho capito che non avrei scritto né della guerra né della Shoah e questo per due ragioni. Non volevo improvvisarmi un testimone né sostituirmi ad essi. Inoltre, credo che nel raccontare la guerra si possano adottare due registri, quello epico o quello in qualche modo anti-epico che finiscono però spesso per coincidere nei toni melanconici con cui si guarda a quelle vicende. Al contrario, volevo partire dal fatto che alcune nozioni, magari molto generali, di quanto accaduto allora sono comuni a tutti noi. Ciò mi ha consentito di adottare un canone inverso rispetto a quello della suspense, per cui il narratore dissemina dei piccoli segni inquietanti che mettono sull’avviso il lettore che si sta per produrre qualcosa, lo mette in allarme. Al contrario, nel mio romanzo si racconta una storia che sappiamo già come andrà a finire e proprio per questo l’ironia delle prime pagine diviene via via sempre più amara fino a trasformarsi in qualcosa di insopportabile. Le due catastrofi della guerra mondiale e dell’Olocausto innervano il racconto ma, restando fissate all’orizzonte piuttosto che nell’immediatezza di ciò che è descritto, consentono che l’orrore delle conseguenze non faccia dimenticare le cause che le hanno generate. E soprattutto le responsabilità che ne sono all’origine.
Riguardo agli industriali tedeschi che finanziarono i nazisti, depositari di grandi marchi come Krupp, Siemens, Opel, Basf, Bayer, lei scrive «li conosciamo molto bene, sono fra noi e intorno a noi. Sono le nostre automobili, le nostre lavatrici, i nostri detersivi, le nostre radiosveglie… Sono dappertutto sotto forma di cose. La nostra quotidianità è la loro». Questo passato non smette di interrogarci?
Durante la sua deposizione in uno dei processi di Norimberga, Alfried Krupp, che aveva ereditato dal padre Gustav, uno dei partecipanti alla riunione del 1933 con Göring, l’omonimo impero dell’acciaio, spiegherà «noi non facevamo politica, appoggiammo il partito di Hitler perché ritenevamo che potesse garantire ordine e stabilità al paese». Agli occhi degli imprenditori europei dell’epoca – altrettanto accadde in Spagna, Italia e Francia -, il vero pericolo era rappresentato dal comunismo o dalle sinistre, mentre dei fascisti ci si fidava. In seguito, in particolare in Germania, dopo aver reso possibile con le loro risorse l’ascesa al potere dei nazisti, costoro poterono utilizzare come schiavi gli internati nei lager e, grazie a questa manodopera che veniva sfruttata spesso fino alla morte, accumulare patrimoni tali da poter risorgere rapidamente nel dopoguerra, una volta archiviato il breve capitolo della denazificazione. Così, dopo essere apparsi al fianco dei gerarchi hitleriani e degli alti gradi delle Ss in centinaia di foto e nelle immagini dei cinegiornali dell’epoca, quegli stessi industriali sono diventati i protagonisti della rinascita tedesca degli anni Cinquanta e i loro prodotti hanno riempito le nostre case. Del resto, quasi nessuno di loro fu chiamato a rispondere di quanto era accaduto durante la guerra. Anche per questo, alla fine del libro, ho voluto perlomeno che i deportati morti nelle sue aziende tornassero dall’ombra a turbare le notti del vecchio Krupp.
Alle ultime righe del libro è affidata una considerazione che si proietta sul presente: «non si cade mai due volte nello stesso abisso. Ma si cade sempre nello stesso modo, con un misto di ridicolo e di spavento». Siamo sull’orlo di un nuovo abisso?
Avere a che fare con la Storia rappresenta sempre un modo di guardare e interrogare anche il presente. Certo, il mondo oggi è radicalmente cambiato rispetto a quello degli anni Trenta, e tuttavia alcuni elementi si assomigliano in maniera sinistra. Assistiamo ad una crescita dell’autoritarismo, del razzismo, ad uno sviluppo senza precedenti della finanza e al contempo al dilagare delle diseguaglianze. In questo contesto, in molte società, a cominciare da quella italiana, non è ancora chiaro se le élite economiche finiranno o meno per allearsi ancora una volta con l’estrema destra. É perché avevo di fronte tutto ciò che con L’ordine del giorno ho voluto descrivere proprio come siano stati una lunga serie di compromessi, di «discorsi ragionevoli», di negoziati e accordi tra «persone responsabili» a consentire al fascismo di insediarsi in Europa.