Non bisogna lasciarsi ingannare dal titolo, né dal tono pacato e lineare del racconto: "La sposa gentile", l'ultimo romanzo di Lia Levi, edito dalla casa editrice E/O (214 pagine, 18 euro) non è l'omaggio a una donna "cortese", ma la storia di un matrimonio misto, tra il giovane banchiere ebreo Amos e l'ancor più giovane e cattolica contadina Teresa. E' lei la "gentile", ma nel significato esteso della parola latina "gens", cioè "gente non ebrea". Un amore passionale, che non ascolta regole e tradizioni, religioni e status socio-culturali, ma travolge le due anime e le condanna all'ostracismo delle due comunità di provenienza. Così, in una Saluzzo dei primi del Novecento, seguiamo la vita della coppia: da una parte Amos che ricoprirà di benessere la sua numerosa famiglia, dall'altra Teresa che cercherà in tutti i modi di dargli "la famiglia ebrea" che lui desidera. Questo fino all'estate del 1938 che con le leggi razziali distruggerà tutto ciò che è stato costruito. L'autrice, che ha presentato il romanzo al Centro ebraico italiano, "Il Pitigliani", ha spiegato così la genesi del romanzo.
«Il nucleo viene dalla mia storia familiare, da mio nonno e mia nonna, che si chiamava veramente Teresa. Poi ho condito la realtà con molta fantasia. Come diceva un autore francese un romanzo è una storia vera raccontata da un bugiardo. Di base è la storia di questa donna che si fa ebrea per amore. Nessuno le aveva chiesto o imposto di farlo. Anzi, Amos è contrario, ritiene che ognuno debba mantenere la propria religione. Ma lei ha ormai come scopo della vita il renderlo felice».
Quando Teresa chiede di diventare ebrea, Amos le dice che è impossibile: ebrei si nasce. In che senso?
«C'è una certa resistenza a far diventare qualcuno ebreo. Per motivi storici gli ebrei non fanno proselitismo, sarebbe un motivo in più per essere perseguitati. In più, un conto è trovarsi in certe situazioni essendo nati ebrei, un conto per conversione. E poi non è solo una religione, è un modo di vivere, di concepire la vita, mille gesti quotidiani. Le conversioni ci sono, ma sono rese difficili».
Appena però muore Amos, Teresa non celebra più certe cerimonie, rimette la Madonna in camera.
«Sì, con la morte di Amos finisce la sua missione: dargli la famiglia ebraica che l'avrebbe reso felice. La prima istanza delle scelte di Teresa non è la fede, ma l'amore».
Il matrimonio misto allora era visto come un tradimento della comunità, una minaccia alla sua sopravvivenza. E oggi?
«Oggi è la stessa cosa. Le minoranze si devono difendere. Oggi ovviamente non ti mettono al bando, ma crea molto dispiacere. Per gli stessi motivi: se facessero tutti così il gruppo sparirebbe. Per i figli si spera una famiglia ebraica, poi ci sono molti Amos e Teresa».
Amos si innamora di Teresa proprio perché è così diversa da lui: contadina, creatura florida, boschiva.
«Sì. A lui, agli ebrei, manca proprio la spontaneità della natura. I ghetti sono sempre stati nelle città, chiusi fra mura, almeno quelli in Europa occidentale dove c'era proprio il divieto per gli ebrei di possedere terreni. Amos è attratto da questa forza vitale. E' un po' quello che succede agli intellettuali, alle persone sofisticate, gente un po' esangue».
Gli ebrei italiani parteciparono alla prima guerra mondiale, accettando anche di trovarsi a combattere contro i propri fratelli. Nel '38, gli ufficiali ebrei erano più di 3.000. Le Leggi razziali azzerarono tutto.
«Sì c'era proprio il desiderio di identificarsi con la nazione, di sentirsi parte di questo paese che ti ha accolto. Uno dei miei nonni è morto in guerra. Nel '38 l'essere cittadini a pieno titolo è andato distrutto. La democrazia si è trasformata in dittatura e tutto è stato possibile. I diritti non sono acquisiti per sempre».