La riunione segreta, il 20 febbraio 1933, tra 24 industriali tedeschi — gli Opel, i Krupp, i Siemens e gli altri — e i nazisti che pretendono finanziamenti: 24 cappelli di feltro, che nascondono 24 crani pelati o corone di capelli bianchi. L’incontro drammatico al Berghof, la residenza sulle Alpi bavaresi: Hitler sfida il cancelliere austriaco Schuschnigg a nominare un solo grande contributo dell’Austria alla Storia, e lui dice Beethoven, che però è tedesco. La trionfale invasione dell’Austria, l’Anschluss: un gigantesco ingorgo di panzer perché i mezzi in cima alla colonna sono caduti in panne, con Hitler che sbraita bloccato nella coda. Nell’Ordine del giorno (E/O), premio Goncourt 2017, Éric Vuillard ripercorre gli anni immediatamente precedenti la Seconda guerra mondiale: non c’è grandezza, sia pure nel Male. Hitler, Göring e von Ribbentrop non appaiono invincibili, l’esercito tedesco non è affatto una poderosa macchina da guerra, il cancelliere austriaco è un ometto inadeguato. Se i nazisti hanno conquistato l’Europa è più per la pochezza di chi si trovarono di fronte. La Storia come regno del grottesco. Nei locali parigini di Actes Sud, la casa editrice nata a Arles, «la Lettura» incontra l’autore.
Nel suo libro il tono che lei usa per raccontare eventi epocali è ironico, distaccato.
«È una questione di linguaggio ma anche della materia di cui si parla. Di recente ho visto un’esposizione della fotografa Vivian Maier, mi ha colpito lo scatto di un uomo panciuto, facoltoso, seduto su una berlina, dalla cui portiera aperta spunta la gamba, e su uno sgabello c’è un bambino che gli lucida le scarpe. C’è la scelta dell’inquadratura ma la situazione è reale, la fotografa non ha pagato l’uomo per mettersi in posa né ha cercato i costumi da ricco e da povero. Lo sguardo è ironico, ma è ironico soprattutto il fatto che esista una così grande disparità di calorie tra l’uomo e il ragazzino, e che siano le poche calorie a lavorare. Così il mio tono è ironico, ma perché conosciamo già gli eventi spaventosi che seguiranno, la guerra, i milioni di morti, la Shoah. Ai quali si arriva dopo una serie di eventi grotteschi, cioè ridicoli e spaventosi insieme».
Per esempio la complicità delle grandi famiglie industriali tedesche, che assecondano il nuovo potere nazista più per debolezza e compiacenza che per vera adesione.
«È così. La Storia si presenta a noi sempre in modo degno, anche nella malvagità, perché i documenti, i filmati, sono spesso frutto di propaganda, scelti con cura per dare l’impressione migliore, un po’ come facciamo noi quando scegliamo le nostre foto da mostrare. Ma la realtà è stata diversa. Lo stesso vale per l’Anschluss: nel nostro immaginario fu un’invasione fulminea dell’efficientissimo esercito tedesco accolto da trionfatore, solo perché in modo inconsapevole abbiamo finito per prendere per buona la versione di Goebbels. In realtà, per ore i cittadini austriaci aspettarono con ansia i soldati tedeschi, è vero, ma questi non arrivavano perché si erano impantanati da soli sulle strade nazionali. Di fronte alla propaganda, la letteratura e il cinema sono una buona risposta, come ha già dimostrato Il grande dittatore di Chaplin».
Per l’incontro al Berghof lei si è basato sulle memorie di Schuschnigg. Come?
«Come sempre nei miei libri, i dialoghi sono identici alle fonti originarie. Poi interpreto l’episodio del Berghof in modo diverso da lui, ma certo che Schuschnigg fa di tutto per aiutarmi: intanto il titolo delle sue memorie è Requiem per l’Austria, quando si ha a che fare con gli austriaci tutto è subito solenne, arrivano gli eserghi dei poeti, una caricatura di grandezza che spinge all’ironia. Poi Schuschnigg è a sua volta un dittatore cattolico-fascista, quindi i suoi toni da vittima sono immotivati. Le sue memorie sono piene di incongruenze, dal fatto che citi Beethoven come grande austriaco all’idea disperata che usa per provare a fermare Hitler: il diritto costituzionale. Cioè a un certo punto un dittatore pensa di fermare un altro dittatore spiegandogli che non può firmare una tal carta perché spetta al presidente della Repubblica e non a lui».
Un altro momento surreale del libro è il racconto del pranzo offerto a Downing Street dal premier britannico Chamberlain all’allora ambasciatore tedesco von Ribbentrop in procinto di tornare a Berlino.
«Qui la mia fonte è Churchill. Negli istanti in cui i panzer tedeschi invadono l’Austria, von Ribbentrop a tavola a Londra diverte i commensali con un racconto interminabile sul tennista Bill Tilden. Chamberlain riceve un telegramma che lo avverte di quel che sta accadendo al confine austro-tedesco, ma non trova il coraggio di congedare l’interlocutore per andare a occuparsi degli affari di Stato. Nelle memorie di Churchill il protagonista dell’episodio è von Ribbentrop che la tira per le lunghe, a me invece ha affascinato Chamberlain, troppo educato per interrompere von Ribbentrop. Anche troppo pieno di sé, è una questione di classe sociale. Chamberlain è un perfetto esempio della gentry britannica: disprezza il nazista, non lo ritiene degno di una rottura dell’etichetta. Così va avanti una conversazione surreale in cui si parla di tennis mentre la Germania invade l’Austria».
Nel suo libro il popolo si vede poco, le élite sono protagoniste.
«È vero, nei miei libri precedenti ho dato più spazio ai cittadini comuni. Mi sembra che oggi le élite continuino a esistere, giocano un ruolo importante, eppure non possiamo conoscere i documenti interni del G8 o del G20 o le riunioni a porte chiuse di Davos. Invece abbiamo a disposizione una gran quantità di documenti sul passato. Oggi i nazisti non ci sono più ma imprenditori e industriali sì: non sono sicuro che siano cambiati tantissimo».
Eppure se oggi si parla di risonanza con gli anni Trenta è per via del populismo, ovvero l’invocazione continua al popolo.
«Il popolo però continua a essere influenzato dalle élite. Se continuiamo a parlare soprattutto dell’immigrazione, che secondo i sondaggi arriva dietro la disoccupazione nelle paure dei cittadini, è perché i politici preferiscono così. Nel caso italiano mi colpisce il fatto che non si possa più rifiutare del tutto qualsiasi paragone con gli anni Trenta, certi processi si assomigliano. Quel che è più inquietante, e vedremo se accadrà, è la convergenza eventuale tra élite finanziaria e industriale da una parte, ed estrema destra dall’altra».
Lei ha vinto il Goncourt con un libro sul nazismo, Olivier Guez il Renaudot con quello su Mengele, prima c’erano state «Le Benevole» di Jonathan Littell e Laurent Binet con la storia del nazista Heydrich, in questi giorni uno dei libri più venduti in Italia è quello di Antonio Scurati su Mussolini. Non sono saggi: la letteratura oggi pare ossessionata dal nazifascismo. Come mai?
«Forse perché dopo la Seconda guerra mondiale non si può più pensare l’Europa allo stesso modo, perché l’Europa si è rivelata criminale. L’orizzonte delle nostre domande è la guerra, la Shoah. Quando ci interroghiamo sulla sincerità o la spina dorsale di qualcuno ci chiediamo “che avrebbe fatto ai tempi del nazismo o del fascismo? Avrebbe ceduto, collaborato, resistito?”. Romanzi sulla guerra ci sono sempre stati, forse in questa fase storica siamo particolarmente interessati a quest’atmosfera dei piccoli passi, allo scivolamento progressivo verso l’orrore».