A prima vista non gli daresti più di quarant'anni. Immaginalo, infatti, snello, ordinato, distinto – in un film di prossima uscita, leggevo, potrebbe avere il fascino di Benedict Cumberbatch. Dietro i modi eleganti e la conoscenza enciclopedica di Tom, attualmente professore di storia in un modesto liceo di Londra, si nasconde un segreto a cui il resto del mondo farebbe fatica ad abituarsi, senza scomodare almeno esorcisti o scienziati. Anagraficamente, ha quattrocentotrentasei anni. Nato in Francia da una mamma uccisa sotto i suoi occhi con l'accusa di stregoneria, non ha sempre avuto quel nome, quella professione, quel domicilio. Da eterno migrante, patisce la solitudine, il jet lag e la paura del futuro: invecchia di un anno ogni quindici, ed è impossibilitato a soffermarsi in un posto per più di un decennio. Così ordina la Società degli Albatros: sindacato per pochi eletti che, con le buone e con le cattive, tiene all'oscuro i mortali – le Effimere – dai misteri dell'anageria.
Una nave alla fine si deve fermare. Deve raggiungere un porto, un riparo, una destinazione, nota o ignota. Deve arrivare da qualche parte e fermarsi lì, altrimenti qual è lo scopo di una nave? [...] Non sono una persona. Sono una folla racchiusa in un unico corpo. Sono stato uomini che ammiravo e uomini che detestavo. Sono stato eccitante e noioso, felice e infinitamente triste. Sono stato sia dalla parte giusta sia da quella sbagliata della storia. Per dirla in breve, mi sono perso.
Nel Curioso caso di Benjamin Button si viveva a rovescio, venendo al mondo anziani e andandosene poi neonati; in Vita dopo vita e Reincarnation Blues la caducità dei protagonisti non impediva comunque il loro eterno ritornare; tra le pagine di Anne Rice e Audrey Niffenegger, invece, in un caso un vampiro irrequieto e nell'altro un viaggiatore del tempo senza radici mettevano in rima identità ed eternità. Ultimo ma non ultimo, grazie a una bellissima variazione sul tema in fondo nemmeno particolarmente innovativa, si aggiunge a questo intenso filosofeggiare di massimi sistemi, amore e morte, il protagonista di un Matt Haig letto adesso per la prima volta. Il suo Tom passa attraverso gli anni con la leggerezza e l'autoironia di chi ha imparato che fa male al cuore prendersi inutilmente sul serio. Garbato, mai saccente, vincolato dal peso del proprio segreto ma amante della condivisione e infatuato dell'idea stessa di amore, non metteva piedi in Inghilterra dal Seicento. Quando c'erano il puzzo delle concerie, gli orsi ballerini per attrazione turistica e opportunità sorprendenti per i suonatori di strada – liutaio squattrinato, senza arte né parte, era stato reclutato nella compagnia teatrale di William Shakespeare per mettere in musica Come vi piace. Quando c'erano, soprattutto, Rose e Marion: la moglie morta di peste e l'unica figlia, con gli stessi geni del padre e un destino da fuggitiva. Sulle sue tracce da allora, il professore centenario – nelle esistenze precedenti marinaio, pianista, sicario – combatte invano l'insonnia e l'attrazione per Camille, collega con la quale è tutto un doloroso déjà vu.
Mi sono innamorato una volta sola in vita mia. Immagino che, in un certo senso, questo faccia di me un romantico. L'idea che noi tutti abbiamo un unico vero amore, e che dopo la sua scomparsa nessun altro possa reggere il confronto. È un'idea dolce, ma la realtà è terrore puro. Dover affrontare innumerevoli anni di solitudine dopo. Esistere quando il senso della propria vita non c'è più.
A stargli con il fiato sul collo, oltre alla strana malattia genetica, è Hendrich: mandante millenario e dalla dubbia moralità, che subodora complotti dappertutto e assicura al romanzo di Haig svolte spionistiche, a onor del vero, poco necessarie. Cosa possono le sue minacce, le sue trame, contro la viralità dei social, dei siti d'incontro, dei trend di YouTube? Come si può scegliere deliberatamente la segretezza, se un vecchio akita salvato dal canile, la compagnia di una donna che legge grandi classici sulle panchine o le domande di uno studente brillante ti invogliano dopo secoli alle passeggiate nel parco, a sorseggiare Martini mai provati, a correre il rischio di essere coraggioso? Ho avuto la sfortuna di leggere Come fermare il tempo in un periodo in cui ne avevo poco, di tempo. L'ho fatto durare una settimana. La fortuna, così, è stata quella di sfogliarlo a piccole dosi: godendomelo appieno. Passato e futuro dialogano per dichiarare di comune accordo che a esistere sia soltanto il presente, l'attimo. Si viaggia verso le terre selvagge scoperte da Cook, si offre da bere a Francis e Zelda Fitzgerald in un music hall dei ruggenti anni Venti, si assiste a un concerto con Tchaikovsky come direttore d'orchestra al cospetto dell'esimio Andrew Carnegie in persona.
Ogni volta che vedo qualcuno leggere un libro, specialmente se si tratta di una persona da cui non me lo aspetterei, sento che la civiltà è un po' più al sicuro.
Il secolo corrente è la rozza copia del precedente, innamorarsi è vietato ai membri della Società, l'orologio gira e ticchetta inesorabilmente. Cosa ci suggerisce la nostra inossidabile bussola morale? Come ingannare quel divenire che riduce in cenere coloro che non riescono a stare al passo del longevo Tom? Le risposte non stupiscono, le conoscevamo già, eppure non si può fare a meno di volere bene a Matt Haig, che qui e lì ci regala frasi da incorniciare, e al suo simpatico viaggiatore solitario. Quattrocento pagine, quattrocento anni, il dono e la maledizione di un'eterna nostalgia. L'autore ce ne rende partecipi con la famosa verve britannica, carpendone la vastità senza renderci mai schiavi della pesantezza. Senza commettere l'errore di imbrigliarlo mai, un tempo ora galantuomo e ora tiranno, che ogni giorno ci rende partecipi di un gioco di magia lungo tutta la vita.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Harry Styles – Sign of the Times