Alla base di L’amica geniale (la serie) c’è uno scontro magnifico che avviene sul territorio perfetto. Il territorio sono i romanzi di Elena Ferrante, lo scontro è quello tra il “RAI touch”, quella serenità che pervade ogni immagine delle fiction RAI, che grida tranquillità e a cui contribuiscono una luce distesa e abiti sempre appena usciti dal reparto costumi, e il temperamento disturbante di Saverio Costanzo, che la serie la dirige e che ha una capacità rara di trovare nelle scene una forma sempre diversa di sgomento e paura, come se in ogni risvolto umano lui vedesse un grado maggiore o minore di paura di qualcosa, timore per sé, timore per gli altri.
Non appena la prima puntata arriva nel territorio d’elezione, dopo una scena introduttiva ambientata nel presente, vediamo il piccolo quartiere degli anni ‘50 fuori Napoli costituito da pochi palazzoni isolati e qualche esercizio commerciale. A quel punto la voce fuori campo di Alba Rohrwacher introduce la protagonista, una bambina prima della classe di fatto e di atteggiamento, e la sua rivale, una bambina dai colori opposti che a sorpresa si rivela geniale.
Questo avviene il giorno in cui la maestra di prima elementare si accorge che a differenza di tutti lei sa già leggere e scrivere. Le chiederà davanti alla classe e sua madre chi glielo abbia insegnato e quando lei risponderà “Me” (cosa facile da credere visto il contesto povero) la maestra rimarrà quasi sgomenta, atterrita ad un passo dai tremori, spaventata per avere davanti qualcosa di così originale e prezioso, un’intelligenza così clamorosa da sgorgare con potenza anche nel contesto più ignorante.
La scena è strana e attraente, nonostante il tono tranquillo gridi “fiction Rai“ è evidente che siamo da un’altra parte, un territorio nuovo e da esplorare. Lo confermerà il resto della puntata, appassionante e disturbante. Saverio Costanzo dimostra insomma fin da subito che quel tono che riconosciamo come appartenente alle nostre produzioni peggiori può essere manipolato, che a saperlo fare è possibile muoversi al suo interno e non necessariamente deve essere sinonimo di cattiva serialità, perché a saperlo sfruttare può dar vita a prodotti ottimi come questo.
E ottimo davvero lo è L’amica geniale o almeno lo sono le prime due puntate viste alla Mostra Del Cinema di Venezia (il resto andrà in onda in autunno su Rai Uno gratis e qualche ora dopo per chi ha pagato TimVision). Nonostante non sia tutto alla medesima altezza (inspiegabile come le bambine tra la prima elementare e la quinta elementare non cambino per niente, stesse attrici e stesso trucco) la qualità della narrazione e il passo che la serie gli sa imprimere sono ad uno standard qualitativo che solitamente siamo abituati a riconoscere solo ai prodotti stranieri (del resto è una co-produzione con il canale statunitense HBO). Invece non solo L’amica geniale attacca come una delle migliori serie degli ultimi anni ma lo fa anche in una maniera tutta italiana.
Se infatti nel resto del mondo lo sceneggiatore è la figura chiave della serialità, quello che ha in mano la parte più pesante della creatività, da noi è il regista. E si vede. Ci sono momenti complicati e sofisticati come solitamente non vediamo nelle serie (perché la loro modalità produttiva è più svelta, non è possibile impiegare il tempo che si mette a fare un film per una serie e sono in linea di massima più semplici nella messa in scena). Ad esempio tutto il modo in cui è trattata la figura di Don Antonio, il piccolo boss della zona a lungo celato fino ad un fantastico disvelamento, non a caso una figura spaventosa, come un orco per la bambine, ha del fantastico e lo si deve esclusivamente alla capacità di manipolare le immagini usando fino all’ultimo trucco del cinema.
Sono dettagli che si muovono a latere di una storia e di caratteri che ovviamente reggono tutto. Sembra superfluo dirlo visto il successo internazionale dei libri da cui è tratto, ma la riduzione televisiva lascia intendere perfettamente le ragioni del successo letterario. Nulla sembra andare come prevedibile grazie a personaggi che non hanno niente in comune con quelli che siamo abituati a vedere. Pur riconoscendone la matrice (la maestra dura e vecchio stampo, il padre molle, la madre invidiosa, il genitore manesco, il boss locale) sorprendono di continuo, si dimostrano più umani che fittizi perché senza andare fuori dal loro carattere prendono decisioni inattese e spiazzano, contribuendo all’impressione di un grande affresco umano, in cui gli eventi si presentano in quella medesima forma di caos organizzato con cui li conosciamo nella vita vera.
Due episodi sono ovviamente molto poco per un giudizio completo ma se tantissime serie impiegano 4-5 puntate ad entrare nel vivo e acquistare trazione, questa è un altro paio di maniche. Con una trama pronta a spaziare diversi decenni L’amica geniale mira a raccontare l’amicizia che nasce e tramite la quale conosciamo due personalità sempre più forti e definite.
I primi episodi parlano di ricerca di umanità, di desiderio di ribellione come strumento di elevazione personale (“Avevo capito che ogni disobbedienza di Lila portava a inaspettate scoperte mozzafiato”) e una forma embrionale, selvaggia ma vitale di femminismo nell’ultimo posto in cui si poteva credere di trovarlo. E questa è davvero la forza della serie, riuscire a usare le immagini per coltivare quel che il romanzo fa fruttare a parole, usare la recitazione, la metà del tempo e una necessaria abilità di sintesi per sospingere una frase che deve fare il lavoro che nel libro fa un paragrafo o magari qualche pagina. Vederlo accadere con tale naturalità è pazzesco.