Di origini siracusane, Simona Lo Iacono, magistrato presso il Tribunale di Catania, è autrice di racconti e romanzi, tra cui “Le Streghe di Lenzavacche”, selezionato tra i quindici finalisti del Premio Strega 2016.
Nel 2017 è uscito il suo ultimo romanzo “Il Morso”, un’opera corale che attraverso un’attenta descrizione della psicologia dei personaggi e un armonico utilizzo di metafore, che attingono spesso alla sicilianità, senza oscurare i temi fondamentali della narrazione, racconta la storia di Lucia, una ragazza siracusana, afflitta da crisi epilettiche che, in epoca borbonica si ritroverà al centro di importanti avvenimenti storici.
Il suo male, giudicato ripugnante da chi abbia assistito alle sue crisi, al punto da sembrare “una morte provvisoria” che deforma il corpo come se questo fosse agitato da forze maligne, provocherà uno squarcio irreparabile nella mente e nell’anima di tutti coloro che avranno a che fare con la ragazza, un trauma che li porterà a stravolgere se stessi nel profondo, un “morso” difficile da dimenticare, così come il fascino puro e perturbante della protagonista. Anche lo svolgimento di alcuni eventi storici in qualche modo sarà condizionato dalla “pazzia” della ragazza, una pazzia che, considerata uno strumento da chi cerca di approfittarne per i suoi vantaggi, diverrà infine un’arma a doppio taglio, rivelandosi per quello che è in realtà: un male incontrollabile e libero, come in fondo è anche l’amore.
Salve Simona, grazie di essere qui con noi. Partiamo innanzitutto dal suo ultimo romanzo “Il morso. Uno dei temi che emergono dalla lettura del libro è il forte connubio tra amore e morte, eros e thanatos, rappresentato dal male che affligge la protagonista. Un tema che tra l’altro ritorna anche nelle Streghe di Lenzavacche.
Da dove nasce l’esigenza di unire insieme due mondi, amore e morte, che apparentemente sembrano tra loro così lontani?
Amore e morte sono temi fondamentali ne “Il morso”, perché sono le domande centrali della nostra esperienza umana. Non possiamo vivere se non ci poniamo l’interrogativo sul significato della nostra esistenza, e quindi su ciò che la delimita e la circoscrive. L’esperienza della fine è sempre presente quando la letteratura e l’arte in generale sono mezzi di ricerca spirituale. Inoltre morte e amore sono avvinti da un nodo indissolubile. Perché la qualità dell’amore si sperimenta attraverso il grado di sacrificio, e quindi di morte, a cui sa sottoporsi. Non a caso la Croce di Gesù è mistero indissolubile di amore e morte, sommo amore nel sommo sacrificio. Ecco, questi due elementi sono un continuo interrogativo e anche una tensione continua per chi ama, e per chi scrive. Non a caso la protagonista de “Il Morso”, Lucia Salvo la Siracusana, trova la propria identità nel momento in cui, per amore, rinuncia a se stessa.
Quanto è importante la corpoereità nei suoi romanzi?
Il corpo è un altro tema fondamentale della mia narrativa perché esso parla della nostra fragilità. Io narro spesso di corpi sbeccati, imperfetti, afflitti da una menomazione. Ma anche quando il corpo è perfetto, è pur sempre quello di una creatura umana e quindi precaria, che non si dà la vita da sé, ma a cui la vita viene data. Ricordarci della nostra condizione minorata, ci aiuta a essere umili e ad affondare in una grande verità. Noi siamo puro bisogno, e in questo bisogno dobbiamo riconoscere che abbiamo la necessità di alzare lo sguardo verso il cielo, di riconoscere Chi quel bisogno può soddisfare. Inoltre è proprio da questa fragilità che l’uomo è fortemente stimolato a trarre da sé le migliori capacità. Quindi ciò che in apparenza è reietto, ultimo, come Lucia, che è un’epilettica, o come il piccolo Felice (de “Le streghe di Lenzavacche”), che non può muoversi né parlare correttamente, in realtà ha in mano una grandiosa opportunità. Quella di trovare, proprio attraverso la debolezza, la propria forza. Quella di trasfigurare la fallibilità in fantasia, la ferita in opportunità. E’ questo il motivo per cui il corpo umano, con tutte le sue potenzialità e i suoi misteri, entra prepotentemente nei miei romanzi.
Nei suoi libri c’è una grande attenzione alle leggende, ai racconti, alla saggezza degli antenati (i rimedi, le tradizioni e le profezie delle Streghe di Lenzavacche ad esempio)
Quanto pesa la memoria del passato nella sua scrittura?
Le leggende e le profezie sono un elemento indissolubile dell’immaginazione. E poi, è la parola stessa ad essere profetica, a far avverare le cose. Per questo motivo nei miei romanzi c’è sempre un elemento legato al vaticinio, alla capacità di leggere il futuro e la buona o la mala sorte. Così come c’è attenzione ai vecchi rimedi, alle antiche ricette, ai piatti della cucina, ai sapori e agli odori. Ma è la parola che fa il miracolo di fare avverare la realtà, e di immettere le cose nella nostra fantasia. E’ la parola che evoca, e quindi emoziona. E’ la parola che predice, e quindi invita l’esistenza a trasformarsi.
La memoria è la nostra identità, non possiamo trascurarla, sarebbe come vivere senza radici. E senza radici non si può neanche spiccare il volo. Inoltre la storia di chi ci ha preceduto aiuta lo scrittore a indagare le dinamiche attuali, a mettere una distanza tra cose trascorse e cose contemporanee. Questa distanza offre lucidità, sguardo, capacità critica, e consente di parlare del presente soprattutto quando parliamo del passato. Non a caso io sono una appassionata sostenitrice del “romanzo storico metaforico” di cui parlava Vincenzo Consolo. Ossia la storia come metafora dell’oggi, la memoria come pretesto per l’attualità.
Un altro tema ricorrente è quello della passione per il racconto, che può animare tutti, anche coloro che non sono in grado di leggere, né di parlare.
Cosa significa per lei scrivere? Che valore assume per lei la letteratura?
La passione del racconto nasce dall’esigenza di dare voce a chi non ce l’ha. A chi deve tacere per colpa delle dinamiche dei prepotenti, a chi vorrebbe dire ma non ha i mezzi, a chi avrebbe i mezzi, ma non ha più la forza, perché travolto dallo scandalo della “Grande storia”, che deturpa l’umile, che affligge il debole. Ecco, raccontare storie offre una opportunità a chi non l’ha avuta, consente in qualche modo di fare una piccola, grande rivoluzione: dire, e dire in modo tale che l’universo interiore cambi. La narrazione quindi è il campo delle grandi rivolte, perché è una assertrice, tra le più potenti e scandalose, della libertà.
In entrambi i romanzi i protagonisti lottano contro un potere conservatore che nega il cambiamento. Possiamo dire che i suoi personaggi siano in qualche modo dei ribelli che lottano contro il sistema?
Io scrivo proprio per questo, per un potente anelito di libertà interiore e di verità. E perché scrivendo realizzo un’aspirazione di giustizia. Riscatto il derubato, il bambino, la vedova. Riprendo in mano la loro sorte, la rinnovo attraverso una impensabile ribaltatura. Offro ai miei personaggi un destino, che non è detto sia un destino felice, ma è un destino raccontato, ed è quindi in grado di non essere dimenticato, di essere una testimonianza, un richiamo, un urlo di gioia o di disperazione. E quindi, sì, certo. I miei personaggi sono sempre dei ribelli, ma nel senso prima detto. Sono oppositori del potere, nel senso che mettono in crisi le consolidate dinamiche. Ma lo fanno in una maniera assolutamente inusuale per il nostro modo di vedere le cose. Oppongono alla prepotenza la debolezza. Alla bellezza dell’apparenza la bellezza delle ferite. Al successo del mondo, il successo della scoperta della propria vocazione. I miei personaggi raramente conquistano la felicità che la società apprezza. Spesso restano nella loro condizione, che è una condizione umilissima e defilata. Ma la loro felicità è un’altra. E consiste nel trovare se stessi. Il proprio posto nel mondo.
Spezie, luoghi, detti, atmosfere, leggende. La Sicilia è sempre l’ambientazione fondamentale dei suoi romanzi. Qual è il suo rapporto con questa terra?
La Sicilia è la mia terra e quindi non posso scrivere se non attraverso ciò che conosco. Ma la Sicilia è anche una magnifica metafora della condizione umana in generale, perché nella nostra isola tutto è estremo. Il grande male. La grande bellezza. La grande miseria. Le grandi ricchezze. Uomini corrotti. E uomini che muoiono per la giustizia. Siamo tutto, e per questo uno scrittore siciliano ha un grande privilegio, quello di vedere incarnata nella propria terra la trasfigurazione di ogni pulsione, di ogni difetto e di ogni virtù.
Oltre ad essere scrittrice è anche magistrato. Pensa che la tua formazione giuridica abbia in qualche modo influenzato il suo modo di raccontare?
E’ esattamente il contrario, è la mia anima da letterata che influenza il mio lavoro da magistrato. La letteratura è infatti un campo privilegiato per fare giustizia. Un libro ci racconta sempre qual è la norma violata, quali le conseguenze di quella violazione. E ci dice con certezza che oltre il limite ci sono delle conseguenze, che l’avere oltrepassato una barriera incide sulla nostra salvezza. Ecco: io credo che il romanzo sia un grande strumento normativo. Perché comunica valori morali, anche senza fare alcun sermone, per il solo fatto di farci entrare nella pelle del personaggio, forzandoci a cambiare la nostra percezione delle cose, il nostro sguardo, e il nostro giudizio. Non a caso in carcere, quando propongo percorsi di scrittura o teatro faccio proprio questo. Offro testi che restituiscano il valore leso dal reato, in modo che il detenuto si possa riappropriare della coscienza dell’illiceità. La lettura e la cultura dovrebbero servire a questo: a formare la coscienza, a scavare in noi il senso del giusto e dell’ingiusto, a istillarci il desiderio di guardare l’altro con compassione, restituendo a ciascuno la sua unicità. La letteratura è quindi un mezzo per esercitare la pietà umana, ma anche per servire la giustizia.
Quali sono i prossimi progetti?
Ho moltissimi progetti. A settembre verrà nuovamente pubblicato il mio romanzo di esordio “Tu non dici parole”, uscito nel 2008, vincitore del Premio Vittorini opera prima. Poi seguirò i detenuti minori della casa circondariale di Bicocca in un percorso teatrale. Lo scopo del laboratorio che propongo loro è quello di assumersi la responsabilità delle parole che vengono pronunciate. Infatti questo percorso si intitola “A cominciare dalle parole” e tende a far comprendere ai detenuti che la legalità parte dalla capacità di saper parlare senza ferire, senza aggredire, senza violentare. Le azioni vengono subito dopo, ma tutto comincia dal modo in cui si usano le parole. E poi ho altri due romanzi in uscita! Insomma, tantissimi progetti, tanti sogni, tantissime speranze, ma soprattutto tantissima gioia di scandagliare, attraverso l’arte, il mistero dell’esistenza.