«Io credo che i libri non abbiano alcun bisogno degli autori, una volta che siano stati scritti». Ad affermarlo è una delle autrici italiane più vendute al mondo, Elena Ferrante, misteriosa “matrix” della quadrilogia “L’amica geniale” e dei best seller “L’amore molesto” e “I giorni dell’abbandono”. Certa della inutilità degli autori come soggetti referenziali di un’opera letteraria in quanto prima o poi finiscono inevitabilmente per diventare figure autoreferenziali, Elena Ferrante ha deciso sin dal suo debutto letterario nel 1992 di non svelare la sua vera identità e di utilizzare uno pseudonimo. Proprio per questo ormai pluridecennale rigoroso anonimato, ma soprattutto per i milioni di libri venduti in tutto il mondo, intorno all’identità di questa autrice si è scatenata una vera e propria caccia alla donna o all’uomo che dietro si nasconde con tanto di inchieste giornalistiche, workshop stilometrici e scommesse a colpi di analisi quantitative. Verrebbe da dire che più che uno pseudonimo il nome di Elena Ferrante è diventato ormai uno degli εἴδωλα, cioè delle “immagini dell’assenza”, più ricercate del mercato editoriale contemporaneo. Unico punto debole l’essere ancora in Italia snobbata dal mondo universitario.
A cercare di fare giustizia di questa assenza “ingiustificata” dagli studi accademici è Tiziana de Rogatis, docente di Letterature comparate all’Università per Stranieri di Siena. Folgorata dalla scrittura di Elena Ferrante ha scritto sui di lei diversi saggi. L’ultimo, “Elena Ferrante. Parole chiave” da poco pubblicato con la stessa casa editrice della Ferrante, la e/o, indaga attraverso parole chiave l’universo letterario della misteriosa autrice cercando di delineare alcuni “centri generativi” del suo complesso immaginario che, partendo da Napoli con un processo di “smarginatura” fortemente simbolico e personaggi mai univoci, sempre plurali, ma assolutamente umanissimi, è riuscito a costruire un mondo capace di rendere universale ciò che viene generalmente considerato marginale e dunque di elevarlo ad una sorta di paradigma valido a Napoli come a New York.
Come è nata la sua passione per Elena Ferrante?
«È stata folgorante. Leggendo il suo primo romanzo “L'amore molesto” mi sono resa conto che in questo libro c'è tutto un mondo, un immaginario, un simbolico femminile straordinario che in Italia non viene studiato all'università, anzi, a parte qualche eccezione, è tendenzialmente ignorato. Poi l'incontro con la quadrilogia de “L’amica geniale” è stato ancora più forte. Al centro di questi romanzi c'è Napoli e da napoletana in questo modo di raccontare la mia città finalmente mi sono riconosciuta come non mi era mai capitato con nessun altro scrittore partenopeo. Devo dire però che ho cominciato a scrivere sulla Ferrante per difenderla dagli attacchi».
Lei pensa che vi sia una sorta di ghettizzazione della scrittura femminile?
«Il problema della marginalità della scrittura femminile non riguarda solo l'Italia. Già che si parli di “scrittura femminile” e non di “scrittura maschile” dando per scontato che sia l'universale, fa riflettere. È vero che le donne sono state assenti dal mondo della cultura per ragioni storiche di dominio, di subalternità fino alle soglie della modernità, ma è anche vero che da quel momento in poi esiste una grandissima tradizione di scrittrici, che però restano etichettate come scrittura femminile: questo è il problema. Così nel caso emblematico di Ferrante mi sembrava ci fosse bisogno di fare un po' di chiarezza su tanti versanti».
Lo ha fatto attraverso parole chiave?
«Esatto. Ho associato alcune parole chiave a una sorta di mappa per offrire una chiarezza di visione e di lettura soprattutto in ragione di una critica misogina che spesso accusa la scrittura delle donne di essere contenutistica e poco all’altezza di una forma elaborata. Di qui il poco interesse o addirittura una sorta di divieto di accesso per Ferrante agli studi universitari. Quindi le prime parole chiave per la sua scrittura sono proprio quelle di “una narrazione popolare geniale”».
Che cosa significa?
«Che questa scrittrice raffinata, sintetica e sperimentale nei suoi precedenti tre romanzi, ha avuto con “L’amica geniale” il coraggio e l’intelligenza creativa di misurarsi con i materiali dell’intrattenimento e della letteratura di consumo. Dragare i “fondali bassi”, rovistare nello “scantinato dello scrivere”, facendo i conti con il “fondo pieno di piacere per anni represso in nome della Letteratura” (come lei stessa scrive ne “La Frantumaglia”) significa attingere per la costruzione dell’opera a sottogeneri “ai margini” come il romanzo d’appendice, il thriller, la sceneggiata napoletana e persino il fotoromanzo. Questo modus operandi mette in contatto la scrittura con l’energia emotiva del plot, scavalcando le derive sperimentali più estreme del ‘900, e al contempo riscrive e trasforma la convenzione del grande romanzo delle origini con i suoi colpi di scena, le agnizioni, gli intrecci multipli».
Altre parole e temi chiave?
«L’amicizia femminile, la smarginatura, la frantumaglia, i rapporti madre-figlia, che portano al centro dell’analisi un immaginario, un simbolico femminile da cui spesso le donne “sono vissute” più che viverlo, perché è un immaginario di cui non si parla, che non è materia d'insegnamento, eppure è molto presente nella storia delle donne. Stessa cosa per la “matrofobia”, una sorta di indicibile che ha ossessionato soprattutto le figlie negli anni ’70, la paura cioè di diventare come le proprie madri, viste come deboli e marginali».
Nel suo saggio a proposito dell’identità di Elena Ferrante scrive: «Portando all’estremo le tante inverosimili illazioni che sono circolate, si potrebbe anche arrivare a dire per assurdo che questa scrittrice è simultaneamente donna e uomo, travestita/o e transgender, etero e omosessuale, è un singolo essere vivente, una coppia, un trio, un collettivo».
«Ovviamente è una provocazione. Proprio attraverso l’analisi di parole chiave mi sono fatta l'idea di una scrittura che mette al centro in modo perentorio il punto di vista femminile incarnando questa ricerca prima di tutto nella forma, perché “L'amica geniale” è una forma del femminile, è un racconto polifonico in cui le due protagoniste, Elena e Lila, non posso fare a meno l’una del racconto dell'altra. Il suo andamento procede a ragnatela, è intrecciato a catena, non capiamo mai chi parla e di chi stia parlando e se stia dicendo la verità: è il racconto di una narratrice inaffidabile. Insomma dentro c'è tutto il punto di vista femminile, tutto l’immaginario delle donne».
Allora chi c’è dietro lo pseudonimo?
«Mi sono fatta l'idea che sia sicuramente una persona che per decenni ha studiato, letto, sperimentato creativamente tutto questo. Ciò presuppone una curiosità, un'empatia, un'identificazione con certi universi del femminile contemporaneo che personalmente non ho ancora mai trovato in un uomo anche e soprattutto in Italia, perché presuppone un ascolto, una dedizione, una partecipazione che non s'improvvisa. Quindi, chiunque sia, io penso che dietro ci sia un pensiero e un'esperienza di vita profondamente connessa al femminile».