Alle prese con un ennesino caso da risolvere ritorna in libreria il commissario Proiteo Laurenti, personaggio letterario di Veit Heinichen (Ostracismo, Edizioni e/o). Come nelle precedenti apparizioni, perno e figura agente di un intreccio ben congegnato, Laurenti si fa apprezzare per il suo senso di giustizia e le doti di comprensione e simpatia.
A rimorchio del suo passo flemmatico, senza colpi di scena, e tenuto abilmente a distanza da una conclusione buonista che stonerebbe (il lieto fine è predisposto ma non garantito) lo snodo corre prevedibile alla conclusione. Ma non importa: ciò che colpisce in questo libro (lungo una linea già tracciata da Heinichen ma posta qui, se non m'inganno, ancora meglio in evidenza)non è l'abilita della detection (ovvero la messa in opera di ragionamenti deduttivi che squarciano il velo di mistero che avvolge un fatto criminale: primo maestro Poe), né l'interiorità tormentata di personaggi, inquirenti compresi, che schiudono torbide profondità dietro la superficie di società in apparenza perfette (come di solito nella formula gialla degli scandinavi, tutti più o meno nipotini di Strindberg) e neppure la natura dei delitti (mai fantasiosamente efferati in Heinichen, come in certi noirdegli americani, morbosi adepti dell'indagine autoptica).
Altro il modulo del giallista tedesco o, potremmo dire ormai triestino, per come racconta luoghi, consuetudini, storia (in genere con una buona cognizione di causa) della città d'adozione (per inciso, andrà notato quanto spesso il romanzo criminale giochi la carta del colore locale: Montalbán per quando riguarda Barcellona, Camilleri la Sicilia – qui addirittura evocata nella mescidazione linguistica –, Markarius per Atene con tutto ciò che ne consegue, topografia, monumenti, tipi umani, cucina). Heinichen orienta il giallo in direzione di un moderno "romanzo di costumi" che va a parassitare, in modo innegabilmente felice, gli schemi del romanzo giallo, assunti, ma senza ombra di parodia, nella loro più scontata convenzionalità. Il discorso va approfondito ma non senza una breve premessa.
Il poliziesco (sui cui aveva iniziato a indagare già Walter Benjamin: Sulla popolarità del romanzo poliziesco), facendo propria l'esigenza tipica del romanzo popolare di puntare sul binomio riconoscibilità-abitudine (spinta fondamentale alla fruizione allargata dell'arte anche nell'epoca delle società di massa), presenta la necessità, in tutte le sue declinazioni, di articolare le funzioni testuali rispondendo a parametri fissi e familiari. È un universo che assomiglia a quello dei cantari del Medioevo, che raccontavano l'epopea cavalleresca introducendo di volta in volta, anche linguisticamente, minimi scarti rispetto agli stereotipi delle varie "materie" e "cicli", conquistando così attenzione e approvazione da parte del pubblico (piuttosto di ascoltatori, ovviamente, che di lettori). Heninchen, non fa eccezione: muove anch'egli le sue pedine in una scacchiera che riserva ormai assai poche sorprese, dal momento che tutto o quasi tutto in termini di temi, intreccio, scelte espressive, è stato sperimentato dagli acrobati che volteggiano sulla rete mondiale della scrittura di genere (con il risultato di impostare una tipologia multiforme ma insieme di maglie strette, che sposa con enigmatica oracolarità lo spirito del tempo, di libertà condizionata in società iper-burocratizzate, metaforizzando le nostre paure e accompagnandoci nell'illusione di una realtà ancora trasparente e decifrabile di cui possiamo, pur con sordo disagio esistenziale, ridiventare padroni). Questa l'orbita: eppure il "pianeta" Heinichen è capace di traiettorie, per certi aspetti, originali. Seguendo una linea di sviluppo che di libro in libro mi pare sempre più marcata, lo scrittore mette in scena una società, nei suoi aspetti cruciali e nelle sue storture, esercitando su di essa un diritto di critica, in senso etico, di fortissimo rilievo (il suo obiettivo, ha dichiarato in un'intervista allo Spiegel del settembre 2017, è di rappresentare un quadro fedele della realtà, da cui far discendere delle domande. Sceglie però di non schierarsi, in modo aperto e dichiarato, nell'agone della politica – ma cosa c'è di più politico, di sanamente politico che battersi per verità e giustizia? – al contrario della co-intervistata, Petra Reski, giornalista che si è occupata a lungo di cose di mafia, dichiaratasi vicina ai 5stelle).
Per dire altrimenti: lo schema giallistico si carica di schegge di denuncia morale, che, per tradursi in parola, necessitano – qui entra in gioco ovviamente la disposizione dello scrittore come uomo, artista e intellettuale, relativamente alla scelta di essere narratore oppure saggista, giornalista o invece poeta – di una opportuna e specifica mise en fiction. Mi spiego meglio e grazie ad un esempio altissimo: nessuno potrebbe negare che I promessi sposi nascano dal tronco fertile del romanzo storico (e, per certi aspetti, del Gothic novel). Ma siamo tutti ben consapevoli che essi privilegiano la riflessione etico-religiosa (e, in subordine, politica) piuttosto che lasciare libero gioco a un gusto dell'avventura alla Walter Scott (che pure è uno dei modelli). La metafora dell'Italia serva e dell'Uomo che stenta a trovare la strada della Verità depotenzia i moduli tradizionali dell'avventura. Senza i quali però il libro, che mira a un linguaggio universale che supera la contingenza di specifici eventi (ha perfettamente ragione Lukács: Manzoni poteva scriverne solo un romanzo, e quel romanzo) non potrebbe esistere.
Heinichen non è "manzoniano" nel senso che non è mosso da rigorose premesse di ordine religioso, ma il suo umanesimo laico è altrettanto ferreo del cattolicesimo giansenista del grande milanese. Lo sguardo del giallista che stempera con l'ironia la durezza della verità (in fondo, nihil humanum...), affonda nella torbida melassa della società italiana, così ben avvertibile (e così soffocante) nelle piccole città, mettendo a nudo le reti di complicità del notabilato, gli intrecci di relazioni e gli scambi di favori, le cordate di potere, spesso, con
omertà e ricatto, ai limiti della legalità, la felpata prepotenza di un'élite politico-sociale predatrice e arrogante, con i suoi comprimari, sempre al servizio del più forte, sempre sul carro del vincitore.
Gli addentellati tra le vicende del libro e le cronache del malaffare (anche nelle sue forme non penalmente rilevanti), sono tanto frequenti ed evidenti che non occorre farne parola. Heinichen con l'accusa del sociologo e la spregiudicatezza del giornalista d'inchiesta (merce rara in una corporazione così incline al servo encomio) decifra l'oggetto misterioso che,a torto o a ragione, turba le notti dei nostri partner europei. E quel mondo, del quale Heinichen ci porge lo specchio, ~ quanto sfugga allo sguardo di chi si accontenta della narrazione ottimistica del Bel Paese, è ahimè, in tutto e per tutto nostra res: l'immagine di un paese in cui il senso etico si è tanto impoverito da far suonare grottescamente ipocrita ogni richiamo al bene comune, all'impegno di adempiere ai propri doveri (riguarda i politici, ma non ne esenta i cittadini) "con disciplina e onore", ad una convivenza costruita su basi di giustizia e solidarietà.
Ovviamente, per fedeltà al patto narrativo, Heinichen spinge al delitto coloro che generalmente si accontentano di lucrosi cabotaggi nelle penombre paramafiose del "sistema" (che tra lungaggini processuali, prescrizione ultrarapida,patteggiamento e sconti di pena ha sostanzialmente montato un meccanismo di impunità per corrotti e faccendieri) regalandoci così, in nome della legge (esecutore: Proteo Laurenti) una sorta di compensazione (che intercetta in modo perfetto il nostro bisogno di "consolazione": che sia l'esorcismo della disperazione?).
Viene da pensare a uno di quei giallisti che opera su uno spartito analogo, a Petros Markaris, scrittore greco nativo di Istanbul (raccomando la letture de L'esattore, non per invitare all'emulazione qualche mio patriota esasperato, ma per comprendere come le storture della società possano diventare un fruttuoso tema narrativo), una bella penna che racconta la Grecia stremata e amara che l'Europa ha affidato alle tenere cure della Troika (dopo di che è totalmente uscita dallo spettro informativo della nostra stampa...). Dalla parte degli esclusi e degli emarginati (le vittime, ecco il senso del titolo, di qualche forma di "ostracismo"), mentre la società dei due terzi, profetizzata da Peter Glotz, è diventata in Italia, quasi a imitazione del Sud America, la società del 10% (la minoranza che possiede la ricchezza nazionale), Heinichen cede forse qualcosa al dickensiano cliché del del riscatto degli umili. Impossibile non giustificarlo. Il "pauperismo" non è merce rara negli spiriti più sensibili in un paese che si sta immiserendo e che grottesche panacee precipitano sempre più in basso (ma cosa importa?! Tutto in nome dello spread!). Macinando vittime sia di pelle bianca che di pelle scura (emblematicamente il duo dei perseguitati che il giallista accompagna con sguardo simpatetico) la macchina dell'ostracismo lavora a pieno regime, tanto in senso metaforico (li priva di dignità) che reale (magari per interposta autorità: le milizie libiche, Erdogan, i partner europei del gruppo di Visegrad, e un gradino più su, impassibile divoratore di uomini come il Lucifero degli affreschi medievali, il golem neo-liberista). E che sia un autore di gialli (da molti considerato un genere minore) a sensibilizzare una pubblica opinione sempre più indifferente alle logiche dell'esclusione e dell'espulsione – qui destra e sinistra non contano, mors tua vita mea – è, credo, un ottimo segno. Spiritus ubi vult spirat (lo Spirito soffia dove vuole, secondo il Vangelo di San Giovanni), avrebbe detto Manzoni.