«Erano arrivati una sera di maggio accolti dal profumo delle ginestre. Dovevano stare due giorni, prolungarono la vacanza di altri cinque. (...) Gli era bastato guardare fuori dalla finestra del salone: lo scoglio della Gabbianara, il mare, un limone carico di frutti». (p. 13)
Quando ho chiuso l'ultima pagina di questo romanzo, ho avvertito, netta, la sensazione che sarebbe stata una delle più belle letture di quest'anno. Sarà che il libro è ambientato all'isola del Giglio e io con questo pezzo di roccia nel mar Tirreno ho un rapporto d'amore sconfinato. Un luogo magico, un posto che mi accoglie, ogni volta, nei miei ritorni, con lo stesso abbraccio, quasi materno, accogliente, femminile. Un luogo di cui ormai ogni pietra mi è familiare, ogni profumo riconoscibile, ogni scorcio di mare noto. Il libro è uscito un paio d'anni fa, nel 2016, ma io ho atteso, per iniziarlo, uno dei miei ritorni: sapevo che leggerlo qua, su quest'isola, avrebbe avuto tutto un altro sapore.
E d'altra parte anche questo romanzo inizia così, con la stessa fascinazione: una coppia di giovani si reca in vacanza al Giglio, negli anni 70, per un weekend, giusto per festeggiare la laurea... un weekend che diventa una settimana e poi, improvvisa, la decisione che quell'isola diventerà il luogo della vita, quello dove far nascere i figli, quello dove far crescere i sogni (e, di necessità, dove seppellirne altri). La coppia è formata da Vittorio ed Elena la Rossa, lui veterinario, lei laureata in economia, che, in poco meno di una settimana, si trasformano in gestori d'albergo. Al Giglio. Corrono gli anni 70 e l'isola, in quel periodo, viene toccata per la prima volta dalla Storia: Franco Freda e Giovanni Ventura, accusati di avere orchestrato la strage alla Banca dell'Agricoltura di piazza Fontana a Milano, vengono spediti al confino su quest'isola. E i gigliesi non ci stanno.
Il libro parte così, con la rievocazione delle iniziative, inutili, che gli isolani mettono in campo per opporsi a questa decisione.
Ma la narrazione prende immediatamente una piega diversa perché la dimensione che interessa maggiormente all'autrice è quella familiare, in particolare il rapporto che si instaura tra le due sorelle, figlie di Vittorio ed Elena, che al Giglio nascono: Caterina, la più grande, dinamica, estroversa, determinata, sicura di sé, volitiva, polemica e un po' saputella (forse troppo), a volte decisamente antipatica, e Teresa, un paio d'anni in meno, più timida, insicura, desiderosa di compiacere gli altri, in particolare il padre, meno disinvolta, un po' fifona, gravitante da sempre, come isola minore, nell'orbita tracciata dalla sorella più grande. E questo fil rouge, il rapporto inscindibile tra le due, sarà la linea portante di tutto il romanzo. Che abbraccia un arco di quarant'anni e che si conclude quando la Storia, per la seconda volta, andrà a toccare l'isola del Giglio, sotto forma di una nave da crociera che andrà a incagliarsi sullo scoglio delle Scole. Portando via con sé più di trenta vite umane.
In mezzo, quarant'anni, appunto. Una vita in cui le due sorelle crescono e, crescendo, cambiano, mentre il rapporto tra loro rimarrà invece uguale. Anche quando prenderanno strade diverse, Teresa si sentirà sempre sorella-isola «minore». E Caterina rimarrà
«la parte intelligente di me, la mia complice aguzzina, la mia metà cattiva, la metà geniale, la metà più amata, quella che mi amava, quella che mi sarebbe mancata sempre». (p. 84)
Eppure è proprio a lei, alla sorella minore che l'autrice assegna la parte principale: è Teresa infatti la voce narrante ed è attraverso le sue parole, il suo punto di vista, i suoi sentimenti, le sue scelte di vita (a un certo punto fondamentali per il plot) che ricostruiamo la storia della famiglia e il rapporto tra sorelle. Anzi, proprio a lei saranno offerte almeno due occasioni di riscatto. E di rinascita, finalmente come donna, non soltanto come sorella minore. Toccherà a lei infatti mettere mano alla discendenza familiare. A lei, e solo a lei. Niente uomini. Perché il romanzo è interamente costruito sulle donne fortissime che la Pieri tratteggia (la mamma, le sorelle, la nonna): sono tutte donne-isole, che bastano a se stesse. Proprio come dice Nonnalina:
«Noi non siamo tanto donne da aver uomini intorno. Ce la facciamo da sole. L'è e nostar distein». (p. 167)
Gli uomini ci sono, ma non riescono a diventare determinanti. O non possono perché cancellati dalla Storia. O non vogliono perché pavidi e superficiali.
Il tutto sullo sfondo magico dell'isola, che l'autrice conosce bene (Lorenza Pieri ha trascorso infatti la sua infanzia proprio qui). Ed è facile a dirsi, l'isola chiama a sé, nella narrazione, il ruolo di coprotagonista: con il mare, le spiagge, il porto, il faro, i profumi del mirto, della ginestra, dell'erica, del lentisco. E ancora con il vento, il sole, gli inverni tempestosi. E gli isolani con il loro rapporto di amore-odio verso i turisti, che finalmente quando se ne vanno, lasciano l'isola a chi veramente appartiene. Tutto questo naturalmente non può accontentarsi di fare soltanto da sfondo.
Sicché anche lei l'isola, donna anch'essa, naturalmente, emerge prepotente.