Quando il giornalista e scrittore turco Ahmet Altan è stato arrestato con il fratello Mehmet, a pochi mesi dal golpe fallito contro Erdoğan, avvenuto in Turchia nel luglio 2016, difficilmente avrebbe pensato di poter essere addirittura condannato all’ergastolo, con l’accusa di “invocazione del golpe”. I fratelli Altan, tuttavia, non sono le uniche vittime dell’ondata di persecuzioni e di arresti pretestuosi a danno di intellettuali, giornalisti e accademici che ha caratterizzato il periodo “post” golpe. La loro tragica esperienza si inscrive infatti in quadro politico più ampio, ancora lontano dal vedere una possibile risoluzione.
Per questa ragione e/o, casa editrice italiana di Altan, ha voluto raccogliere in unico volume intitolato Tre manifesti per la libertà tre memorie difensive scritte da Altan, in cui il giornalista utilizza le accuse che gli sono state rivolte per riflettere, in senso più ampio, sulle condizioni politiche della Turchia, e su come queste si riflettano sulla giustizia e sulla legalità nel paese. I testi di Altan sono preceduti da un appello a Erdoğan per la scarcerazione di Altan firmato da 51 Premi Nobel (tra cui spiccano anche quelli per la Letteratura Coetzee, Ishiguro, Jelinek, Müller, Soyinka e Vargas Llosa), e il ricavato delle vendite del libro non andrà all’editore ma verrà devoluto all’autore, ancora costretto in carcere.
“Solo demagogia, basata su menzogne”
Ahmet Altan smonta punto per punto le accuse che gli sono state rivolte, mostrandone l’assoluta falsità. Sono menzogne ridicole perché manifeste, prive della benché minima pretesa di essere credibili. L’imputazione di Ahmet e Mehmet si basa sul fatto che conoscono di vista “uomini accusati di conoscere gli uomini accusati di essere a capo del colpo di Stato”, come se idealmente bastasse conoscere un criminale per esserlo (Altan fa l’esempio di un ipotetico vicino di casa). Il giornalista viene poi addirittura imputato per aver scritto articoli di cui non c’è traccia, risalenti a un periodo in cui non lavorava al giornale per cui dovrebbe averli pubblicati. Il tenore delle accuse, insomma, è davvero basso, e denota fino a che punto il pubblico ministero non abbia bisogno di costruire un atto d’accusa effettivamente credibile.
“Senza giudici, non può esistere una nazione”
Le parole di Altan sono dure: ciò che garantisce la fiducia di un popolo in uno Stato non sono i partiti politici o l’apparato militare, bensì il sistema giudiziario. Il giudice deve essere meritevole di fiducia e deve essere incrollabilmente onesto: non possono esistere giudici mentitori. Da questo punto di vista, accettare gli atti d’accusa nei confronti dei fratelli Altan, dichiarare che le illazioni che sono state fatte nei loro confronti siano prove concrete, significa mettere automaticamente l’intero sistema giudiziario sotto processo per inadempienza.
Altan ribalta dunque dialetticamente la sua posizione, ponendosi da indagato a giudice, non per punire ma per portare alla luce la menzogna. Ahmet Altan muove dalla sua posizione individuale per abbracciare quella dell’intero stato turco, e nel farlo sottolinea le somiglianze del colpo di stato del 2016 con l’Incidente del 31 marzo 1909. Un altro colpo di stato più vecchio di un secolo, anch’esso fallito e organizzato da alcune componenti dell’esercito. Le consonanze tra i due avvenimenti, perfettamente sovrapponibili, fanno venire la pelle d’oca: la consapevolezza dell’imminente golpe da parte del governo, il numero di ribelli estremamente ridotto e difficilmente in grado di resistere al grosso dell’esercito, il fatto che in nessuno dei due casi si sia mai saputo il nome dell’ufficiale al comando. E si potrebbe andare ancora avanti.
Altan, con queste brevi e incisive memorie, attacca al cuore il governo turco e lo strapotere di Erdoğan. Ne smaschera la violenza e le incongruenze, prevedendo, come Cassandra, il futuro cupo che aspetta la Turchia. “Siamo all’ultimo atto di un pessimo dramma”, scrive Ahmet Altan: lo scrittore non ha paura di morire in prigione perché sa che il tempo passa, le fasi politiche si susseguono ciclicamente, e la storia chiude sempre i suoi conti.