«La dimostrazione più impressionante di quanto fossi innocente era che a diciott’anni credevo ancora in un mondo giusto». Difficile immaginare qualcosa di più lieve di una ragazza che, in piena adolescenza, si sporge con fiducia incrollabile verso il futuro. Sembra quasi che la felicità del circostante possa essere convocato per il solo desiderio di somigliarle.
SIAMO NEL 1981, anni di poesia letta e scritta, quando la giovane Alice Sebold, percorre la galleria sotterranea in cui viene violentata. Altri diciotto anni trascorrono prima della pubblicazione del suo libro che racconta quella terribile esperienza. Anche per questo, Lucky (e/o, pp. 333, euro 9,90, traduzione di Claudia Valeria Letizia) è un memoir coraggioso e straordinario. Dopo la prima uscita statunitense nel 1999 (e una prima traduzione italiana nel 2002), è questa recente una riedizione che arriva in un momento storico e politico importante. Sia per la potenza di un testo che percorre una tra le vicende più orribili che possono abbattersi nella vita di una donna, sia perché Alice Sebold, nella introduzione aggiornata al gennaio 2017, colloca il processo culturale entro cui si muove il fenomeno della violenza nella amara presa d’atto della elezione di un «molestatore seriale nonché palpeggiatore di figa, eletto quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti».
Occhi e incarnato chiari, oggi incontriamo all’età di 54 anni, Alice Sebold, il volto di chi ha cercato di non cedere all’inferno che l’ha attraversata. Di questo laborioso rifiuto in cui non conta la retorica sciocca e inutile di chi immagina che le disgrazie ci rendano più sensati e saggi, la scrittrice (nota al grande pubblico con il suo indimenticabile Amabili resti) – è piuttosto sicura: «Può succedere che qualcuno, dopo un grande trauma, si senta più forte ma temo che perlopiù vi sia l’esigenza di raccontarlo a se stessi. Qualcun altro dice di essere contento che gli o le sia capitato perché altrimenti non sarebbe la persona che è. È un’affermazione comune tra i sopravvissuti a una guerra, al cancro, tra coloro che sono rimasti orfani dopo una calamità naturale o paralizzati a causa di un incidente d’auto. E, per molto tempo, l’ho ripetuta anch’io. Ma poi ho smesso, perché se avessi la possibilità di cancellare quanto mi è capitato lo farei senza indugio e in mancanza di una gomma che me lo consenta ho trovato, con grande fatica, una strada possibile solo nella scrittura».
NONOSTANTE DA BAMBINA abbia dovuto lottare con la dislessia, cresciuta in mezzo ai libri, è la lettura ad averla educata allo scrivere. «Eppure Lucky non lenisce il dolore, anzi. Non ho scritto il libro per me stessa né come atto di guarigione. Se avessi voluto guarire avrei potuto scrivere poesie o altro, non raccontare quanto mi è capitato. Invece è stato più qualcosa di prossimo alla responsabilità verso un pubblico. I libri sono dei doni, quando poi l’argomento è così crudo l’effetto di quel dono deve poter essere controllabile».
Gesticola lievemente, mentre ci racconta con fermezza quanto faccia la differenza dare il nome esatto alle cose: «Durante la prima presentazione pubblica di Lucky, diciotto anni fa, sono stata introdotta come l’autrice di un testo basato su una vicenda terribile. Quando mi è stata data la parola ho subito detto “stupro”perché prima di qualsiasi altra cosa viene la nominazione, capace di innescare un processo all’interno della cultura. Solo dopo arriva il resto. Compresi i malintesi, le battute o tutto ciò che non si capisce né si vuole spesso accettare intorno allo stupro. Ma prima bisogna dire la parola, indicarla. È un punto di partenza irrinunciabile».
Se la protagonista di Amabili resti è una ragazzina uccisa, in Lucky il tratto autobiografico è segnato dalla sopravvivenza a una violenza sessuale. L’arco non è solo dettato da variazioni letterarie di circostanza, conduce invece a un nodo – anzitutto politico – che la scrittrice statunitense segnala con chiarezza: «Nella parola stupro c’è una minaccia di fondo. Morire o rimanere in vita dopo un simile evento è qualcosa che condiziona la pubblica opinione. Quando una donna viene assassinata se è stata anche stuprata la sua fine diventa ancora più dolorosa, è come una doppia rapina. Se infatti nel comune sentire essere violate significa perdere la propria purezza, con la morte si espia quella perdita. Quando invece si sopravvive a qualcosa di così enorme non c’è un giudizio netto. Una ragazzina morta fa concentrare sul colpevole. Quando si sopravvive a un’aggressione c’è qualcosa che – di contro – fa attribuire la colpa ai vivi, che divide spesso ambiguamente quella colpa». La morte «libera» così dai fraintendimenti perché «più onorevole rispetto l’ardire del rimanere – nonostante tutto – vive».
IL TESTO segue il passo di una fortuna capovolta, di un paradosso incomprensibile e al contempo schiacciato sulla necessità di quanto successo. «La polizia disse che ero stata appunto fortunata perché non mi avevano uccisa; mio padre disse che era contento fosse successo a me e non a mia sorella perché io ero più forte. Il rovescio della fortuna – precisa poi l’autrice – restituisce anche la cifra dell’ironia, la più amara e drammatica ma pur sempre l’ironia con cui cerco di guardare le cose».
È tuttavia il «lavoro costante con le donne che hanno subito violenza ciò che di cruciale va fatto. Ho avuto la mia personale autorizzazione quando ho conosciuto le prime che venivano a seguire i miei reading. Da allora, ogni anno, ne incontro tantissime. Ciò che è fondamentale, ancora più delle parole, è la presenza, essere insieme». Ecco perché osserva il movimento #metoo con interesse, perché c’è un tratto di esperienza personale che racconta una storia complessa – non solo rivelazione da parte di chi è stata abusata ma anche il baratro che si cela dietro chi ha agito la molestia. «Intravvedo una speranza nella apertura di una discussione pubblica. Perché credo vi sia una forma di empatia tra chi ha subito un trauma e chi no. Con Trump abbiamo a che fare con la prepotenza, con l’onnipotenza della cultura machista. Mi auguro possa essere questa una occasione di comunanza contro qualcosa da rigettare. Si potrebbe cominciare con il contrapporre alla onnipotenza la risorsa della vulnerabilità, per esempio».
Da ascoltare, oltre che da leggere, con cura e attenzione, Sebold ci tiene a specificare come il suo non sia stato un atto di denuncia, né il tentativo di comporre un trattato sociologico sulla violenza maschile contro le donne. «Diffido degli approcci troppo teorici, senza dati di esperienza rischiano di non arrivare a tutte e tutti. Ho inteso scrivere qualcosa che non risultasse pesante, chi avrebbe letto si sarebbe fidato. Ho desiderato questa fiducia totale. Non ho condannato il genere maschile, la restituzione da parte dei lettori è stata infatti corrispondente alle mie intenzioni. Certo non sollevo nessuno ma nemmeno vorrei fare analisi generaliste e grossolane».
ED È QUI che si intuisce la ragione per cui, oltre al ritratto impietoso del suo stupratore – condannato a pagare penalmente – l’autrice di Lucky sceglie di raccontare le sue successive relazioni con altri uomini. Non si arrende a una visione «prestazionale» che, dice, «prevede una reazione attiva verso la violenza sessuale subita; quindi palestra, impegni costanti e molto sesso fin da subito». A schiudersi per lei è invece la scoperta, dopo molto patimento durato più di un anno, di una quiete, cioè l’imprevisto di una intimità ritrovata.
Sceglie così l’amore disarmante per sigillare e cambiare di segno la prostrazione. Dice sì alla prossimità di un uomo caro invece dell’odio sterminatore. Solo in questo modo la rabbia può restare intatta e generativa. Quella di Alice Sebold, di rabbia, ha un sorriso impareggiabile e stretto come la linea degli occhi. Si impara molto da certi precipizi del volto altrui. A quel graffio della voce, che a capofitto arriva fino al cuore, a quella impercettibile intermittenza oculare mentre tiene con sé il peso di quanto vissuto, tantissime donne – e altrettanti uomini – possono dire grazie.