"In che razza di società viviamo se gli uomini si eccitano a picchiare le donne? Il prossimo passo dopo le denunce sarà capire in che modo la cultura in cui viviamo abbia potuto rendere le percosse una fantasia sessuale accettabile". In un'intervista a ilLibraio.it, la scrittrice Alice Sebold parla di violenza sulle donne e del futuro del movimento #metoo. Tra i temi affrontati dall'autrice di "Amabili resti", anche il rapporto con scrittura (“Per chi scrive scegliere le parole giuste è molto più importante di quanto possa esserlo per gli altri. Nell’introduzione a 'Lucky' ho scritto della differenza che c’è nell’usare le definizioni 'vittima di stupro' e 'sopravvissuta a uno stupro'...") e l'affetto per i cani che hanno accompagnato la sua vita.
“La mia vita era finita, la mia vita era appena cominciata”, scrive Alice Sebold in Lucky (edizioni E/O, traduzione di Claudia Valeria Letizia) a proposito della mattina in cui ha deposto la sua dichiarazione alla centrale di polizia di Syracuse. Aveva diciotto anni e poche ore prima era stata stuprata mentre rientrava nella residenza universitaria in cui abitava.Ci sono voluti 18 anni perché scrivesse il memoir in cui ripercorre lo stupro e quello che ne è conseguito: amicizie perse, visite delle anziane vicine, preoccupazioni dei genitori e della sorella ma, sopratutto, le relazioni con gli uomini e il sesso. Come scrive Sebold: “naturalmente, i loro sforzi sono stati in gran parte inutili. Nessuno può tirarti fuori da nulla. O ti salvi da sola o non ti salvi”.
Dopo Lucky, Alice Sebold ha scritto il romanzo che l’ha resa celebre, Amabili resti (edizioni E/O, traduzione di C. Belliti), che si è rivelato il più grande successo editoriale di un’opera prima dall’epoca di Via col vento. Al centro del libro la storia di Susie Salmon, tredicenne stuprata e uccisa dal vicino di casa che, sotto forma di spirito, veglia sulla famiglia. Dal romanzo nel 2009 Peter Jackson ha tratto l’omonimo film con Saoirse Ronan nei panni della giovane protagonista.
Alice Sebold ora ha 54 anni – ne sono passati 18 dalla pubblicazione di Lucky – ed è stata in Italia per partecipare al Salone del Libro di Torino, dove ilLibraio.it l’ha incontrata. Vestita di nero, seduta sul divano chiaro nella hall di un hotel, tra una riposta e l’altra ha sorseggiato un espresso senza zucchero.
Ultimamente si dibatte molto sull’uso corretto delle parole, sia soffermandosi sull’importanza della rappresentazione femminile, sia sull’uso di epiteti sessisti. In Lucky anche lei si interroga sull’utilizzo delle parole, a partire proprio dal termine “stupro”. Quanto è importante dare il giusto nome alle cose?
“Per una scrittrice scegliere le parole giuste è molto più importante di quanto possa esserlo per gli altri. Nell’introduzione a Lucky ho scritto della differenza che c’è nell’usare le definizioni ‘vittima di stupro’ e ‘sopravvissuta a uno stupro’. Spesso mi trovo a discuterne, in particolare con i più giovani. Non è un problema se gli altri vogliono usare la parola sopravvissuto, ma io mi sono sentita costretta a sentirmi una sopravvissuta, un termine che da scrittrice mi sembra sbagliato, anche perché credo che essere una vittima non sia qualcosa di negativo. Non è un’identità, ma una circostanza momentanea”.
Il suo primo contatto con la narrazione dello stupro è stata una poesia: che cos’è la scrittura per lei?
“Un modo per esplorare le mie ossessioni. Esplorando si scopre. Se non sono curiosa non sono motivata a scrivere. Non so come faccia a scrivere chi fin dall’inizio sa già tutto della storia: io mi annoierei”.
Nella prefazione a Lucky si sofferma a riflettere su Trump, che definisce “un molestatore seriale”. Crede che la nascita di un movimento come #metoo e il fatto che si parli più spesso di violenza di genere sia una risposta alla situazione politica americana?
“Negli Usa al momento la questione razziale e quella femminile si stanno facendo notare, visti i continui attacchi da parte del Presidente e di chi lo supporta. In realtà il razzismo e la misoginia stanno venendo a galla perché Trump li ha resi accettabili, ma ci sono sempre stati. Poiché le persone non hanno il potere di far dimettere il Presidente, stanno facendo ciò che possono per cambiare almeno la cultura”.
Nella prefazione a Lucky scrive anche che “forse è proprio l’emergere di un numero sempre maggiore di episodi di stupro e aggressione sessuale a rappresentare il nostro più grande progresso”. Dopo questa fase di denunce, qual è il cambiamento necessario per mutare la cultura che finora ha accettato questi soprusi?
“Il movimento #metoo finora si è occupato di raccogliere le storie. Ma perfino il procuratore generale di New York che seguiva la causa contro Weinstein (Eric Schneiderman, ndr) si è dovuto dimettere dopo le accuse di violenze da parte delle sue ex – nella sua mente si trattava di giochi di ruolo. In che razza di società viviamo se gli uomini si eccitano a picchiare le donne? Il prossimo passo dopo le denunce sarà quello di capire in che modo la cultura in cui viviamo abbia potuto rendere le percosse una fantasia sessuale accettabile. Però penso anche che gli uomini che sono stati accusati a un certo punto debbano essere inclusi nella discussione, non per dirigerla, ovviamente, ma perché altrimenti si rischia di limitarla a una serie di accuse a cui nessuno controbatte. E questo vale anche per il futuro di #metoo: come potrà evolvere il movimento se si ferma solo alle accuse?”
Sia in Lucky che in Amabili resti i cani sono i migliori amici delle protagoniste. Quanto è importante per lei la relazione di affetto che si instaura?
“Non ho avuto un cane per quattro anni e, quando due anni fa ne ho preso uno, ho capito quanto influenzi la mia vita. Mi ero autoconvinta di non essere pronta per la responsabilità di avere un cane da sola, visto che mi ero appena separata. Da scrittrice amo i cani perché a loro non interessa quello che dico, né tantomeno il linguaggio. Odio i libri con i cani come protagonisti perché in realtà i cani non hanno nulla a che fare con la letteratura e le parole: sono sentimento, emozioni e gioia. Il mio ex marito diceva che l’essenza della vita di un cane si può sintetizzare nell’idea di svegliarsi ogni mattina pensando che sia la migliore”.
In Lucky definisce i due bassotti con cui è cresciuta “le creature a noi tutti più care”…
“Crescendo i cani sono stati fondamentali nella mia vita. Si trattava di un rapporto così speciale che dopo l’uscita di Lucky, quando una lettrice mi ha regalato un’immagine di un bambino abbracciato al suo cane, mi sono emozionata moltissimo”.
Infatti nei ringraziamenti di Amabili resti appare anche il suo cane…
“Sì, ho inserito nei ringraziamenti il mio cane di allora, Lily, con la frase ‘and a woof to Lily’. Non appena il libro veniva tradotto in altre lingue, la prima cosa che facevo era cercare come si traduce il verso del cane nel resto del mondo”.
Che cosa curiosa!
“Parlando di curiosità, prima, quando stavamo parlando di #metoo, mi è venuto in mente che dopo le presentazioni, quando gli uomini mi venivano a parlare di Amabili resti, confessavano che la scena in cui il cane della protagonista muore e ritrova la sua padroncina nell’aldilà era quella che li aveva colpiti di più. Credo sia perché gli animali trascendono le apparenze. Mi diverte vedere un omone tutto d’un pezzo che porta a passeggio il suo cagnolino, con cui ha probabilmente la relazione più sincera. Con il cane non deve fingersi macho”.
Infatti anche gli uomini si devono adattare ad alcuni stereotipi di genere. In Lucky, ad esempio, suo padre sembra essere costretto a non capire fino in fondo la sua sofferenza…
“Mio padre era uno di quelli che se la cavano meglio con i cani. Di sicuro è così, anche perché spesso sembra che i padri non abbiano il permesso di capire le figlie. Io almeno ho il ricordo di mia madre con un atteggiamento da ‘questo è il mio territorio’ e mio padre che se ne va. Al momento non ci facevo caso, ma poi sono passati gli anni e mi sono resa conto di non aver avuto una vera conversazione con mio padre per quasi un decennio…”
Al momento sta lavorando a delle nuove storie?
“Negli ultimi anni ho scritto un libro che non pubblicherò perché è fin troppo personale: è basato sulla fine del mio matrimonio. Anche Lucky è personalissimo, ma quando l’ho pubblicato non credevo che qualcuno lo avrebbe letto. Ora invece è diverso. E poi si tratta di un libro che ho avuto bisogno di scrivere, ma che non sento la necessità di pubblicare. E devo ammettere che sono abbastanza fortunata da poter scegliere di fare così! Ogni volta che ne parlo mi viene in mente un giornalista inglese, Robert McCrum, che qualche anno fa sul Guardian ha scritto che nel mondo vengono pubblicati troppo libri. Più ci penso e più mi convinco che è un’ottima idea non pubblicarlo! Ora però sto lavorando a un’opera che mi piacerebbe arrivasse ai lettori”.
Chi sono gli autori che l’hanno influenzata maggiormente mentre si avvicinava alla scrittura?
“Quando ho iniziato a scrivere lo odiavo, mentre oggi, ogni volta che faccio un viaggio, sfrutto l’occasione per rileggerlo: parlo di Henry James. Qui con me per questo viaggio in Italia ho portato Gli ambasciatori. Al liceo, invece, mi hanno molto influenzata le poesie di Denis Johnson. Crescendo ho sempre letto più poesia che prosa: avevo delle difficoltà a leggere, ma all’epoca la dislessia non veniva diagnosticata. Quindi, siccome facevo fatica a leggere i romanzi, mi dedicavo ai versi”.
Scrittori si nasce?
“Per il 75% si tratta di talento naturale. A trent’anni ho studiato scrittura e sono rimasta affascinata da come le nostre opere sembrassero, all’interno della scuola, la cosa più importante del mondo. E pensare che non eravamo nemmeno mai stati pubblicati! Ma in classe c’erano 15 persone a cui interessava davvero il mio lavoro e che credevano fosse importante. Un’esperienza che mi ha motivata, anche perché arrivavo da una brutta situazione: lavori sottopagati, debiti, la paura di impazzire perché mi sentivo incapace di avere successo. E anche avere come insegnanti persone che fanno quello che è il tuo sogno e riescono a viverne è stato di aiuto”.