Ottanta anni fa, nel l938 venivano estese anche all'Italia le leggi di Norimberga, le leggi razziali che misero in moto la macchina sterminatrice nazista. Dell'applicazione di queste leggi in Italia Lia Levi ha fatto il perno del suo più recente romanzo, Questa sera è già domani (edizioni e/o, pp. 221, € 16,50). Sin dal libro d'esordio, Una bambina e basta, Lia Levi ha mantenuto una sua propria fedeltà a temi legati al mondo ebraico, alle persecuzioni antisemitiche e alla Shoah. Ma oltre che rispetto ai temi e agli ambienti, la fedeltà della scrittrice si è attestata rispetto a una modalità di espressione, che scaturisce ogni volta con rinnovata freschezza. Le sue storie procedono secondo la tecnica dell'abbassamento e dell'avvicinamento progressivo a situazioni difficili o drammatiche, cosi da indurre nel lettore la percezione di un movimento, un cambiamento progressivo, i cui contorni non sono immediatamente percepibili agli occhi di un innocente o di un bambino, che restituisce una visione straniata e primigenia. Il ritmo è quello di una pacata rievocazione, con le frasi che scivolano lente e regolari a ricomporre per il lettore di oggi un mondo lontano, che presenta però forti analogie con le realtà dell'oggi. Allora come oggi i profughi premevano alle frontiere di alcuni paesi (in questo caso, la Svizzera) in cerca di salvezza. Oggi come ieri i migranti sono costretti a pagare somme ingenti per riuscire nel loro intento e tutto ciò senza la certezza di ottenere il visto d'ingresso.
Non ci sono impennate né punti di acme in questa narrazione, nella quale si rievoca in forma letterariamente trasfigurata l'infanzia e l'adolescenza del marito dell'autrice, Luciano Tas, che qui prende il nome di Alessandro. Evidente la volontà di mettere in rilievo come la gradualità con cui le discriminazioni e le persecuzioni furono attuate ottenesse lo scopo di disorientare e depotenziare le reazioni delle vittime. Il punto di vista scelto è quello di un bambino poi adolescente che cresce in un momento storico tra i più tremendi che si possano immaginare. Alessandro e la sua famiglia puntano alla Svizzera, dove incontreranno una serie di ostacoli ulteriori. Ex enfant prodige con un difficile rapporto con la figura materna, Alessandro svela man mano la forza del suo carattere insieme a un vitale desiderio di reagire: la decisione di aderire alla resistenza ne rappresenta il corollario più naturale.
Il linguaggio è modulato secondo una scansione molto vicina a quella della lingua parlata, con l'intento evidente di tener fede al principio di raccontare le cose dalla prospettiva di un giovanissimo ignaro di malizie quanto scevro di paure. Ed è questo l'elemento che maggiormente segna la pagina di Lia Levi: l'eroe non perde mai la fiducia riposta nel talismano che lo accompagna, un oggetto che potrebbe perderlo ma che invece lo salverà. Anche la narratrice mantiene la fiducia in uno spazio segreto, una radura di dolcezza intemerata e inviolabile, uno spazio cui i personaggi fanno capo e al quale si tengono ancorati.
Come in altri romanzi dell'autrice, anche qui c'è un oggetto concreto, un quid intorno al quale si catalizzano le tensioni. L'oggetto diventa una sorta di armatura invisibile a protezione dell'innocente reso così intoccabile e immune alle nequizie. I bambini di Lia Levi non sono bambini ebrei, sono bambini e basta, dei quali la narratrice riesce a registrare il frullio leggero di pensieri impalpabili e imprendibili, nonostante gli sconci tentativi messi in atto da individui di potere convinti di avere la facoltà di ridurre alla schiavitù e all'annientamento le vite altrui. Almeno in questo caso il talismano poté esercitare il suo potere salvifico.