Drammaturgo, romanziere e filosofo, Éric-Emmanuel Schmitt è uno degli scrittori francesi più prolifici e di successo degli ultimi decenni. Autore di oltre una sessantina di opere, ha appena pubblicato per le Edizioni e/o il suo nuovo libro, La vendetta del perdono, una raccolta di quattro racconti che affrontano la complessa relazione sentimentale e psicologica fra il concetto del perdono e il suo contrario, sublimati tramite altrettante storie ricche, come al suo solito, di sfumature e colpi di scena. L’ho incontrato al Salone del libro di Torino, dove è stato ospite lo scorso weekend, per una conversazione su questi e molti altri temi.
Ha dichiarato in un’intervista che “il perdono è una scommessa sull’umanità”: come mai questo tema?
Nella nostra vita ci troviamo spesso nella situazione di dover perdonare: quando ci fanno male, ci offendono, ci derubano, ci umiliano… Abbiamo sempre l’alternativa fra perdonare o vendicarci, ma è curioso che non se ne parli spesso. In particolare nella nostra epoca non se ne parla molto perché il tema sembra essere religioso, tuttavia è un problema esistenziale, psicologico, morale. In più viviamo un tempo che ha sviluppato molto il tema della vittima: siamo un’epoca vittimistica, prendiamo la parola quasi solo per dire che siamo vittima di qualcosa o di qualcuno. Avevo veramente voglia di parlare di questo problema, possibilmente in modo sottile: per questo ci sono diverse storie nel libro, non scrivo saggi di filosofia con una tesi ma voglio mostrare diversi aspetti (il perdono egoista, quello altruista, quello a ripetizione, quello nei confronti di se stessi e così via).
In effetti spesso il perdono e la vendetta, o meglio la punizione, sono concetti religiosi ma lei ne dà una versione del tutto laica.
Sì, non volevo che il perdono fosse in qualche modo sequestrato dalla religione. La religione cristiana offre ovviamente l’esempio massimo del perdono, quello di Gesù Cristo sulla croce. Ma in generale è un argomento che riguarda la vita di tutti i giorni, all’interno della coppia, in famiglia, in politica, dopo una guerra… In Sudafrica ci sono stati i tribunali del perdono, la politica del perdono. È un tema umano.
Nel suo libro accenna anche alle vittime di stupro, ai neonazisti, alle Brigate Rosse: secondo lei è sempre possibile o consigliabile perdonare?
Sono un partigiano del perdono, penso che restituisca dell’umanità, non solo all’altro ma anche a se stessi: perdonare significa non ridurre l’altro al semplice male che ci ha fatto, a una sola e unica azione. Vendicarsi invece non fa altro che aggiungere male al male, nel vano tentativo di sanarlo. Siamo tutti in fondo capaci del meglio e del peggio, ma credo anche che ognuno debba essere libero di definire ciò che è perdonabile e ciò che non lo è. Non so ad esempio se è possibile perdonare gli assassini dei propri familiari.
Ha perdonato sempre nella vita?
Sì, ho sempre perdonato ma non sono neanche mai stato esposto a un affronto come l’uccisione di qualcuno che amo. Ho sempre perdonato persone che amavo, dunque non ho mai avuto grandi problemi. Quando ci sono stati gli attentati all’aeroporto di Bruxelles, la mia famiglia era decollata solo un quarto d’ora prima dell’esplosione: ecco, se non si fossero salvati non so se avrei saputo perdonare. Tutti dunque devono essere liberi ma bisogna comunque coltivare l’ideale del perdono.
Nel racconto “La vendetta del perdono” ne mostra però anche l’aspetto negativo.
La protagonista Élise perdona l’assassino di sua figlia e quindi gli restituisce l’umanità e questo lo fa di conseguenza rientrare nel dolore. È quella la vendetta, perché prima lui in quanto serial killer era privo di empatia e compassione, quindi protetto dalla sua stessa inumanità. In questo senso Élise è un personaggio ambiguo, quando perdona non è nemmeno più lei stessa, è in una specie di estasi. È proprio l’ambiguità che mi interessa, raccontare con delicatezza la complessità dell’essere umano e della vita.
Da dove trova allora ispirazione per le sue storie? Ad esempio come sono nate “Le sorelle Barbarin”?
Osservo le persone, ascolto. È proprio la vita che mi ispira. Nella mia famiglia ci sono infatti dei gemelli e delle gemelle e dall’osservare loro mi è venuta l’idea. Poi su questa la mia immaginazione lavora. In effetti “Le sorelle Barbarin” sono interessanti perché fra loro Lily è quella che perdona sempre, a ripetizione: ma quel perdono è nefasto anche perché non provoca nessuna realizzazione in chi è perdonato, cioè la sorella Moisetta. Questo perdono d’amore paradossalmente provoca solo odio, dunque bisogna sempre fare attenzione.
C’è sempre la società che svolge un ruolo fondamentale nel giudicare questi personaggi e affibbiare loro dei ruoli che magari vanno stretti.
Moisetta in effetti non è malvagia di per sé, io concordo con Platone quando dice che “di sua volontà nessuno è cattivo“. La cattiveria non ha mai la cattiveria come origine, ma nasce da altro: dalla frustrazione, dall’incomprensione, dal bisogno d’amore ecc. Moisetta ha già questo nome terribile, i genitori non si aspettavano che nascesse, ha sempre un ruolo da numero due: si vive dunque come una vittima.
A proposito di vittime, nei racconti di questo libro spesso le donne vanno incontro a un destino che è imposto loro da altri, spesso da degli uomini. Siamo in pieno periodo #metoo, in questo contesto non è fondamentale definirsi vittime?
Certo, anni fa ho scritto un libro intitolato La donna allo specchio: la vita di una stessa donna vista in secoli differenti mostra comunque come l’oppressione maschile ne impedisca il destino, toccando non solo argomenti enormi come lo stupro ma anche il ruolo assegnato alla nascita alle donne. Quindi tutto ciò che accade in questo momento è molto importante, che le donne possano dire di essere state vittime. È anche un’ammissione di debolezza, di non essersi riuscite a difendersi in quel momento, e dunque ci vuole ancora più coraggio per ammetterlo. Credo anche però che non bisogna abbandonarsi a delle derive: non bisogna mettere tutto sullo stesso piano, fra un tentativo goffo di seduzione, la molestia e lo stupro ci sono delle tappe diverse. Bisogna mantenere il senso della misura, quando ad esempio ho visto un reportage in Francia su donne che, dopo aver ricevuto alcune attenzioni maldestre dai propri datori di lavoro, sono cadute in depressione e non sono mai più riuscite a lavorare, ho pensato che forse erano vittime anche di loro stesse.
Ma ognuna ha il diritto di percepire in modo diverso le cose a seconda della propria sensibilità…
Certo, ma ci sono gradi diversi. Di sicuro la violenza sessuale è diversa da avance maldestre. In questo caso comunque sono convinto che non siamo nella dimensione del perdono: è qualcosa che può essere all’orizzonte ma adesso bisogna legittimamente denunciare le violenze. Se il perdono ci sarà sarà privato, ma si può iniziare a perdonare solo se l’errore viene riconosciuto. Molti ancora non capiscono il problema, la gravità di questi crimini.
Invece in “Disegnami un aereo” c’è una bambina di nome Daphne che ha un ruolo ben preciso, leggendo si ha perfino il dubbio che non esista…
Me lo dicono spesso, in effetti, ma l’ho scritta apposta così, per renderla quasi miracolosa. Lei ha a che fare con questo signore anziano che si sacrifica con un atto che alla fine è di riparazione più che di redenzione, volevo lasciare sfumato il fatto che perdonasse se stesso o meno. Ma la bambina ha la funzione fondamentale di fargli distinguere fra lui stesso e le sue azioni: “Si perdona una cosa a qualcuno, non qualcuno“, gli dice a un certo punto. È molto importante questo.
In tutto il racconto si fa riferimento a Saint-Exupéry e a Il piccolo principe: come mai quest’omaggio?
Io lo amo enormemente. Rileggo Il piccolo principe in continuazione, scopro sempre qualcosa di nuovo e lo trovo estremamente profondo. In Francia ora è di moda presso i critici intellettuali parigini criticarlo, forse solo per il fatto che è così popolare, ma io che sono professore di filosofia devo dire che ci trovo degli insegnamenti morali straordinari. La sua è una scrittura che parla sia ai bambini che agli adulti, questo non comprendono. È come quelli che criticano Mozart perché la sua musica è troppo semplice, ma quella è la cosa straordinaria: Il flauto magico può essere apprezzato da un bambino di dieci anni così come da una persona come me che ha fatto studi di musica e di filosofia. È un miracolo assoluto. Nell’altro racconto “Madamina Butterfly” faccio un omaggio a Puccini, che adoro: è una storia che mi fa piangere sempre.
Anche lei ha pianto da giovane di fronte a una rappresentazione, scoprendo la passione per il teatro…
Sì, era il Cyrano de Bergerac con Jean Marais. Penso che quando si legge, si va a teatro o all’opera, ci si libera di se stessi, anzi si crede di liberarsi di se stessi ma alla fine ci leviamo delle inibizioni e dei filtri – soprattutto con la musica che ti travolge – e approdiamo a stati di coscienza ulteriori, alle nostre verità profonde. L’arte ha proprio la funzione di metterci di fronte alle nostre verità. Grazie a Madame Butterfly il protagonista del racconto, William, capisce molte cose di sé, di aver causato una vittima, realizza la sua verità.
Dunque qual è il suo scopo quando scrive: vuole insegnare qualcosa, trasmettere emozioni…?
Cerco sempre di scrivere delle storie che provochino emozioni e riflessioni nel lettore, anche se non so esattamente quali. Credo molto nel potere della finzione, quando ci lascia prendere per mano da una storia si perdono le proprie abitudini. Ad esempio in uno dei miei testi più fortunati, Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano, che ho appena messo in scena negli Stati Uniti, il pubblico simpatizza con un droghiere mussulmano in un periodo storico come questo in cui nessuno simpatizza con i mussulmani; lui è un uomo meraviglioso, con la sua spiritualità e la sua identità. Il lettore piange alla sua morte perché ha come perduto un amico, un amico però che è turco, un sufi, una persona che magari non si sarebbe mai pensato di frequentare nella vita vera. Il potere delle storie è proprio quello di creare della benevolenza, della tolleranza, della comprensione dell’altro, grazie all’empatia che si crea coi personaggi. Nessuno leggerebbe un trattato sulla tolleranza eppure una storia così raggiunge milioni di persone nel mondo.
Come mai sceglie spesso di scrivere racconti? In Italia ad esempio molti lettori ma anche molti editori sono diffidenti nei confronti di questa forma narrativa.
In Francia è uguale anche se in effetti io sono la prova vivente che funzionano (ride, ndr). Molti colleghi mi ringraziano per aver spianato la strada con le mie raccolte che hanno avuto grande successo. In più le mie raccolte di racconti hanno sempre un ordine preciso e una connessione tematica: in termini di storia non hanno alcun legame ma dal punto di vista filosofico o psicologico sono diverse facce della stessa medaglia. Il racconto secondo me è un genere molto contemporaneo: non abbiamo sempre il tempo di leggere lunghi romanzi anche se abbiamo bisogno di narrativa, il racconto più o meno lungo è comunque una storia completa che fa sognare, riflettere ecc. Io ne leggo tanti, mi piace la loro concentrazione che mi permette di sintetizzare l’essenzialità che ho imparato dal teatro e il senso del tempo che mi ha insegnato il romanzo.