Ci fosse una formula a spiegare le ragioni di un successo, si potrebbe sapere in anticipo come provocare quello internazionalmente definito come la Ferrante Fever. E magari costruirlo al tavolino. Ma ovviamente nessuno mai potrebbe. Così ci si continuerà a interrogare sulle ragioni per cui, da New York a Tokio si favoleggia di persone arrivate a prendere giorni di malattia in ufficio per leggere in santa pace la tetralogia de L'amica geniale. Ora, aspettando la fiction diretta da Saverio Costanzo e sceneggiata da Francesco Piccolo, arriva in libreria un'anatomia critica, o fenomenologia, del successo globale senza precedenti, diffuso in 48 Paesi e sancito da 7 milioni di lettori: Elena Ferrante Parole chiave (e/o, euro 18, pagine 304). L'autrice Tiziana de Rogatis, italianista studiosa di Montale e docente d Letterature comparate a Siena, è napoletana. Cosa di sicuro non estranea alla profonda sintonia tra lei e l'opera di Ferrante che fa di questo saggio critico il più compiuto, affascinante e competente percorso di lettura fin qui apparso sull'autrice dei misteri.
De Rogatis esplora la ragnatela fatata della scrittura ferrantiana cogliendone l'essenza di «ipergenere» e «narrazione al tempo stesso geniale e popolare». Estraendone alcune parole significative, porta il lettore nel bel mezzo di quell'universo letterario, ricatturandolo in una full immersion adeguata a rinnovare e prolungare il godimento di chi lo ha amato al punto da chiuderne le pagine con il rimpianto di averle finite. Parole chiave introduce molte novità nella lettura critica di Elena Ferrante, cui attribuisce anche il merito della «rivisitazione del concetto di genio prima attribuito al maschile». Lo fa analizzando l'amicizia tra donne - e la possibilità stessa di farne la matrice di un racconto - come pratica della differenza capace di demolirne il luogo comune sull'impossibilità. Ma al tempo stesso, dell'amicizia femminile dice le asperità, i conflitti, il peso delle triangolazioni generazionali con i ruoli replicati di figlia-madre. Rintraccia i percorsi espressivi che avvicinano Ferrante a Elsa Morante, Virginia Woolf, Fabrizia Ramondino, ne mostra i riferimenti alle eroine classiche Didone, Medea, Arianna. Vi trova tracce di Luce Irigaray, Luisa Muraro, tecniche da romanzo d'appendice, ne confronta le suggestioni narrative con sottogeneri «ai margini» quali la sceneggiata napoletana, il fotoromanzo e perfino i moderni feuilleton (televisivi) «Sex and the city» e «Desperate housewives». Da quel percorso di lettura - densissimo ma fruibile anche per chi non frequenta abitualmente la critica letteraria traggo qui lo spunto sinteticissimo di qualche parola-chiave.
Amicizia. Elena e Lila, le protagoniste della saga, sono viste in controluce con Delia de L'amore molesto, Olga de I giorni dell'abbandono e Leda de La figlia oscura. La loro amicizia è il contrario dell'edulcorata e semplicistica pretesa di sorellanza del femminismo degli anni d'oro: tra esse a volte prevalgono competizione e invidia. È un legame profondamente ambivalente, contiene insieme solidarietà e gelosia, paura e fiducia, complementarietà e estraneità. Le due sono alleate e antagoniste, traggono l'una dall'altra forza ma insieme si saccheggiano a vicenda e si misurano in una gara continua. Il banco di prova decisivo del loro rapporto sarà costituito dalla contesa per lo stesso uomo, quel Nino Sarratore che simboleggia l'antagonismo del potere maschile. La loro è dunque un'amicizia profondamente complessa e imperfetta, ben diversa da quella tra maschi, ma soprattutto un'alleanza creativa costante capace di arricchire. Fa emergere la genialità di ciascuna: tant'è che «l'amica geniale» è ora Lila, ora Elena. E del proprio valore, sembra dire Ferrante, è ora che le donne siano consapevoli e orgogliose.
Bambole. Le bambole appaiono all'inizio e alla fine della quadrilogia, ma anche ne La figlia oscura ce n'era una, rubata da Leda a una bambina sulla spiaggia. «Evocano l'inizio e a fine del tempo magico» scrive de Rogatis, «lo sprofondamento e la riemersione dal magma di Napoli ma anche la cifra di una narrazione femminile totale, in cui la bambola è il simbolo di una ciclicità che accoglie in sé l'amica, la bambina e la madre». Richiamano soprattutto il difficile rapporto madre-figlia, la possibilità per una madre di non provare semplicemente amore ma un sentimento ben più complesso e contraddittorio. La bambola rubata da Leda si sovrappone, alla fine della quadrilogia, alla bambina Tina, che scompare sotto gli occhi della madre Lila nel 1984. Una delle sparizioni rivelatrici nelle costruzioni delle figure del nuovo femminile contemporaneo, centrale nell'opera.
Matrofobia. Nel rione dove abitano Elena e Lila le figure dei padri sono sbiadite, come nel caso dell'usciere comunale padre della prima, oppure violente o inconcludenti. Quelle delle madri hanno la forza generatrice della vita. Ma è una vita anaffettiva, costretta in dinamiche che sanciscono il disvalore femminile. E tra le madri e le figlie a dominare è il conflitto, come quello interiorizzato da Elena che, a dispetto della sua fuga dal rione e dell'approdo a una vita da intellettuale borghese, ha paura di scoprire in sé segni di identificazione materna, simboleggiati dalla gamba zoppa di Immacolata che l'ha messa al mondo. L'archetipo della Madre è qui rovesciato, è presenza di maga e di strega. Diventa percezione di una distanza abissale come quella tra Delia e Amalia de L'amore molesto, a tratti è odio perché il segno materno s'imprime nelle carni come una inevitabile genealogia soverchiante. Ferrante ridimensiona così il sopravvalutato legame edipico mostrando «l'unico grande tremendo amore originario», quello materno.
Napoli. Fin dall'entrata in scena di Lila, nella descrizione dell'io narrante Elena, appare chiaro come la ragazza sia Napoli. È, come la città, «terribile e sfolgorante», indefinibile o definita sempre in una misura di eccesso. E Napoli è, dice de Rogatis, «città-soglia, una città liminale in cui gli opposti si annullano». Superando l'immagine delle «due Napoli» di Mimì Rea, nella quadrilogia queste si frantumano e si contaminano («frantumaglia», altra parola-chiave) unificate dalla voce narrante. E qui, nella «capacità di raccontare Napoli proprio nei suoi aspetti più ingombranti e specifici, in chiave a un tempo globale e locale», sta una parte del successo mondiale della quadrilogia.
Smarginatura. È la perdita di sé, lo spaesamento, lo smarrimento della regola. Dunque, è anche il sentimento dell'appartenere a una città come Napoli. È il «morbo» di cui è affetta Lila, la sua impossibilità di essere normali, la stessa della città. Ed è anche la ribellione al disciplinamento dell'eros imposto dal matrimonio di questa straordinaria «narrazione di resistenza», ricca di una miriade di storie minime potentissime per dire in modo universale, ma a partire da Napoli, l'essere donne ai tempi di #MeToo.