Ore 12 - Alice Sebold, Lucky
Sebold ha scritto il bestseller Amabili resti (10 milioni di copie vendute nel mondo). Un suo testo precedente, un memoir, si intitola Lucky: parla in chiave strettamente autobiografica di uno stupro. È stato recentemente ristampato, e integrato con una nuova, ampia prefazione sulla violenza alla luce del fenomeno #MeToo. Sebold viene stuprata nel 1981. Pubblica il memoir nel 1999: c’è bisogno di una distanza temporale per narrare in modo adeguato un fatto del genere. Ma Lucky è anche, per l’autrice, un passaggio indispensabile per andare oltre e affrontare, coi libri successivi, ulteriori oscure ossessioni (Sebold dice esattamente dark obsessions).
Lucky significa “fortunata”. É un poliziotto a dire a Sebold sei stata fortunata perché, nella stessa galleria in cui lei è stata aggredita, in precedenza un’altra ragazza è stata non solo violentata, ma anche uccisa e smembrata. L’altra paradossale fortuna è questa: essere una bianca stuprata da un ragazzo nero. Se si fosse trattato del contrario, dice Sebold, tutti si sarebbero infischiati dell’accaduto. Ulteriori due fortune: al momento dello stupro lei è vergine. E ancora: al momento dello stupro, lei sta indossando abiti che sua madre le ha prestato, quindi è vestita non solo da brava ragazza, ma addirittura da brava signora di mezza età.
Sono solo questi fatti, assai più dei lividi e del labbro spaccato, a convincere la polizia che lei è stata effettivamente stuprata, e a procurare in seguito allo stupratore il massimo della pena. Ultimi elementi fortunati: non aver subito uno stupro all’interno di un rapporto matrimoniale, non averlo subìto dopo aver accettato un appuntamento, non essere nemmeno una lavoratrice del sesso.
Solo la compresenza di tutte queste “fortune” fa sì che lo stupro sia riconosciuto come reale e venga adeguatamente punito. Così, elencando fatti “fortunati”, Sebold racconta in modo netto il paradosso del sospetto e del trauma sociale che si trova a subire chi ha già subìto uno stupro. Racconta le versioni edulcorate fornite dai poliziotti, e la loro indifferenza. Racconta che perfino suo padre, che poi la sosterrà al processo, nei giorni successivi alla violenza le chiede "ma come ha fatto quel tizio a stuprarti, se aveva perso il coltello?" "È stato necessario - dice Sebold - spiegargli con calma, e in qualche modo “educarlo”". Il fatto vero è che le persone desiderano sempre trovare una causa esterna o un fatto scatenante per uno stupro, perché questo le fa sentire più sicure: le cause si possono controllare ma, se non c’è alcuna causa, tutti si sentono più vulnerabili. Ma Sebold ha un’altra fortuna, e per una volta si tratta di una fortuna vera: è nata in una famiglia che valorizza l’uso della parole come strumento per la ricerca della verità. E, a proposito di parole, chiosa l’attuale tendenza americana a usare il termine survivor invece che victim, per definire le persone stuprate: far questo è come usare il linguaggio come un cerotto.
La forza della parola, invece, è la chiave di #MeToo, ed è il vero modo per superare il trauma. La soluzione è che le donne formino una comunità e abbiano il senso di comunità necessario ad aprire e sostenere finalmente una discussione culturale sullo stupro. È un fatto semplice, ma può cambiare il mondo.