Nella Parigi dei grandi megastore del libro, delle Fnac e dei centri commerciali della cultura, un libraio, un'ereditiera italiana e otto scrittori tra i più dotati di Francia costituiscono una «società segreta della buona letteratura». Nasce così la «Libreria del buon romanzo», luogo atipico dove poter comprare solo capolavori, grandi classici, romanzi da far mancare il respiro e dove è del tutto bandita la paccottiglia generica che alimenta e sostiene in genere il mercato editoriale. Ultimo libro di Laurence Cossé, La libreria del buon romanzo (edizioni e/o, traduzione di Alberto Bracci Testasecca, pp. 404) non è soltanto la storia di un progetto culturale atipico, ma è una vera e propria opera-riflessione sulla letteratura, con ampi riferimenti alla narrativa e all'editoria francese contemporanea. Ne parliamo con l'autrice, che sabato incontrerà il suo pubblico a Torino.
Nel suo romanzo «Le Mobilier national» del 2001, un alto funzionario del Ministero della cultura dedica la sua vita a cercare di distruggere le cattedrali francesi, a suo giudizio, di nessun valore estetico per evitarne il restauro e abbattere così i costi della spesa pubblica. Nella «Libreria del buon romanzo», si tratta, al contrario, non più di sventrare, ma di salvaguardare il patrimonio culturale di una nazione, sempre seguendo però dei criteri di valore estetico del tutto soggettivi.
Nelle nostre società contemporanee è chiaro che la ricchezza appare a tutti come la condizione perfetta di ogni felicità. Ciò che non partecipa dell'utile collettivo subisce una continua svalutazione e ogni forma di gratuità è considerata oggi come accessoria: in primo grado la bellezza. Nelle nostre scelte collettive, le priorità sociali sono sempre rivolte alla cura, alla sicurezza, alla tutela dei cittadini: preoccupazioni perfettamente legittime, ma che hanno ridotto la bellezza a puro oggetto di lusso. Per quanto mi riguarda, la bellezza, l'arte sono invece condizioni essenziali per la crescita della società. Vedo con grande angoscia tutti quei prodotti culturali trasformati oggi in pura mercanzia allo scopo di produrre ricchezza e non più semplicemente «senso».
Nel suo romanzo, l'utopia di un possibile mercato editoriale «virtuoso», slegato da ogni ragione di marketing, sembra però concludersi con l'immagine finale di una libreria costretta a ridimensionare i propri spazi e con il sogno che il governo francese si possa far carico, un giorno, della salvaguardia di una letteratura di qualità. Lei non crede quindi che, da sola, senza aiuti pubblici, la «buona letteratura» ce la possa fare a sopravvivere alle leggi del mercato editoriale contemporaneo?
Io credo molto nella «politica», nel senso più ampio del termine. Credo molto nel dibattito politico e nell'azione concreta di forze non necessariamente legate allo Stato. Anzi, direi che molto spesso l'intervento statale in materia di arte o di cultura si è rivelato talmente disastroso da rendere impossibile ogni forma di fiducia. Anche se non credo alla possibilità di un mercato virtuoso, credo però fermamente al potere della democrazia, ovvero all'intelligenza dei cittadini, alla forza delle loro convinzioni, all'efficacia della loro possibilità di azione. In questo ambito così essenziale per la società come è di fatto la cultura, mi sembra che siano parecchie le associazioni, le fondazioni, i gruppi, in grado di proporre iniziative e di dare un contributo significativo.
La «Libreria del buon romanzo» presenta un catalogo di testi scelti da un comitato segreto composto da otto scrittori e nessun critico letterario. Nella libreria stessa, uno degli imperativi autoimposti dalla direzione, fin dall'inizio, è quello di non tenere alcun testo di saggistica. Lei ritiene che la critica letteraria oggi non abbia più gli strumenti adeguati per «scegliere», per proporre, per rivolgersi direttamente al pubblico dei lettori?
Io credo che la critica contemporanea abbia una enorme difficoltà a esercitare la sua funzione principale che è, di fatto, quella di far conoscere e di far leggere la buona letteratura. Le grandi case editrici oggi puntano sulla diffusione capillare di una quantità enorme di libri e sul bisogno di «vendere» piuttosto che su quello di «far leggere». Ogni libro ci viene presentato come assolutamente indispensabile. E il risultato di tutto questo è che i libri ormai sono del tutto indifferenziati. Questo è oggi il problema più grosso: la totale indifferenziazione di un materiale letterario sterminato. I critici, dovrebbero puntare allora su questo problema, dovrebbero «scegliere». Alcuni, certo, lo fanno, ma la maggior parte non segue che l'opinione pubblica, la moda, o semplicemente le pressioni degli editori.
Di fatto, il suo romanzo si presenta come una vera e propria operazione critica di scelta e commento. Proprio come gli otto «congiurati» del libro, anche il libro stesso, pagina dopo pagina, propone al lettore la sua lista di autori e di opere eccellenti. Ma che cosa è allora, per lei, un «buon romanzo», quali sono stati i criteri per far entrare uno scrittore al posto di un altro all'interno del suo racconto-libreria?
Non è possibile definire a priori un buon libro. Dire che cosa è un «grande romanzo» sarebbe un po' come dare la definizione di una «bella persona». Per continuare la metafora direi che un grande romanzo si riconosce dal suo corpo (stile, costruzione), dalla sua intelligenza (originalità, pertinenza), dal suo cuore (lo si dice raramente, ma un buon romanzo è un romanzo generoso, capace di elevare e aprire l'animo) e infine dalla sua anima, ovvero dalla sua «necessità». Un grande romanzo è assolutamente e del tutto «necessario» al suo autore così come al suo lettore.