Per lo speciale sui finalisti del Premio Strega, due settimane fa avevo recensito il più giovane degli autori in gara, Elvis Malaj. Senza mezze misure passo oggi all’autrice più esperta della dozzina, Lia Levi, arrivata alla letteratura solamente all’età di sessantatré anni (Premio Elsa Morante Opera Prima 1994) e che ormai vanta all’attivo un numero imprecisato di romanzi e libri per l’infanzia. Come la maggior parte della sua produzione, anche l’ultimo romanzo, Questa sera è già domani, ci porta in viaggio nella storia italiana. In particolare a Genova, nel 1938.
Alessandro è solo un bambino, ma in molti vedono in lui un genio. Alessandro è ebreo, un particolare a cui nessuno di solito aveva prestato troppa attenzione. Ma il 1938 è l’anno in cui in Italia vengono promulgate le leggi razziali, e nulla sarà più come prima. Quel particolare non passerà più inosservato, ma stravolgerà la sua vita, interromperà la solita quotidianità. Perché non potrà più frequentare il ginnasio, e neppure qualsiasi altra scuola pubblica. Anzi, che sia ebreo dev’essere chiaro a chiunque: che sia scritto sui documenti, che sia segnato sul vestiario.
Dalla Germania e dall’Austria non provengono buone notizie, ma in molti giurano che gli italiani sono diversi, che Mussolini non si comporterà come Hitler, che gli ebrei in Italia sono al sicuro, che neppure alla folle guerra scoppiata il primo settembre del ’39 l’Italia parteciperà. Ma Alessandro capirà presto che così non è. E come lui anche i componenti della sua grande famiglia che abitano la storia: suo padre Marc, di origini olandesi e di passaporto inglese, sua madre Emilia, gli zii Osvaldo e Wanda, nonno Luigi e molti altri.
Ma quando le cose iniziano a precipitare, la scelta tra restare e partire non si dimostra facile. Nulla è più facile, neppure comprendere quanto si sia ancora liberi e quanta libertà invece si sia persa. Come sopravvivere arrancando in un mondo che tenta in tutti i modi di rigettarti come scoria?
Le basi per un grande romanzo avvincente ed emozionante ci sono tutte, ma la scrittura non è sempre coinvolgente, spesso resta imbrigliata nella mole di personaggi, forse troppi per un romanzo di appena duecento pagine, nel quale, in aggiunta, il tempo degli eventi corre già di per sé rapido. Molti sono solo introdotti senza che siano poi esauriti, altri si sovrappongono, con l’effetto di offuscare anche il protagonista Alessandro e non riuscire a simpatizzare neppure con lui. Certamente l’opera è interessante, ben ricostruita e piacevole, ma si fatica a sentirla vicina.
Di certo, il grande merito di Lia Levi è far rivivere la Storia, quella con la s maiuscola, riportandoci in un’Italia passata eppure non troppo distante, e lo fa con la maestria di chi mostra quanto il presente possa essere tremendamente simile al passato, quanto la Conferenza di Evian, in cui 32 paesi si riunirono per gestire il problema dell’emigrazione degli ebrei in fuga, non sia poi così dissimile dalle attuali conferenze in cui i paesi dell’UE si contendono al ribasso le quote dei fuggitivi d’oggi, né c’è poi così molta differenza tra l’odio e il sospetto che provavano gli italiani d’allora da quelli provati ai giorni nostri.
E all’interno della grande Storia, Lia Levi recupera e fa rivivere la storia di suo marito, il giornalista Luciano Tas, tra i fondatori del mensile ebraico Shalom e scomparso nel 2014. Tas, come anche Lia Levi, era solo un bambino quando ha dovuto fronteggiare la persecuzione razziale. A lui si ispirano, tra realtà e finzione, le vicende di Alessandro e della sua famiglia.
La lezione di Lia Levi è dirci che dobbiamo ancora andare a lezione dalla Storia, per comprendere il presente più del passato, per intuire il futuro ancor più del presente.