È sempre stato difficile il rapporto della letteratura italiana con il fantastico: tanto da far suonare sorprendente la decisione di e/o, la casa editrice di Elena Ferrante, di aprire al genere, scegliendo per il debutto la saga della francese Christelle Dabos, L’attraversaspecchi, vendutissima in patria (oltre trecentocinquantamila copie), tradotta in una dozzina di lingue, in bilico tra fantasy e steampunk. Il primo volume, Fidanzati dell’inverno, esce il 18 aprile e presenta la protagonista, la riservata Ofelia, in grado di attraversare specchi e leggere il passato degli oggetti, alle prese con uno sposo sgradito, Thorn, e con la nuova dimora, la gelida Polo. Ci si diverte e si pensa anche, leggendone le avventure, e si pensa, in particolare, a come il potere magico sia faccenda che ci appartiene e da cui però si prendono le distanze, come se la concezione della realtà a cui siamo abituati non potesse che espellerlo.
Eppure la nostra storia è intessuta di magia, e dovremmo esserne consapevoli fin da quando è stato reso noto il racconto di un giovane bovaro friulano, Menichino da Latisana, processato nel 1591, che sosteneva di uscire in spirito con gli altri benandanti per combattere contro le streghe nel prato dei morti, colmo di rose. Viaggiare fra i mondi, abbandonare il corpo, volare, seguire demoni e divinità, o combatterli, sono elementi culturali, non solo letterari: e ci appartengono profondamente, come ha dimostrato un grande storico, Carlo Ginzburg, sia nel suo primo libro (I benandanti, appunto) sia in quel capolavoro che è Storia notturna. Una decifrazione del sabba, di recente ripubblicato da Adelphi con una nuova postfazione. Fu Ginzburg ad accostare il racconto dell’umile bovaro alle pratiche magiche degli sciamani siberiani, e il meccanismo che lo portò, ventisettenne, su quella pista è ancora oggetto di riflessione da parte sua (riflessione che apparirà in un saggio intitolato Viaggiare in spirito, dal Friuli alla Siberia, incluso in un volume di prossima pubblicazione):
«Mi interesso molto — racconta — ai meccanismi della lettura, e ho ragionato sul me stesso di allora e di ora. Che cosa agiva in me quando, nel momento in cui mi sono imbattuto nell’interrogatorio di Menichino, ho subito pensato agli sciamani siberiani? La risposta è in quella che per me è stata una lettura fondamentale, Il mondo magico di Ernesto de Martino, che si apre con una lunghissima citazione da un altro libro, Il complesso psicomentale dei Tungus, scritto nel 1935 dall’etnografo russo Sergei Shirokogorov (il suo era un relativismo radicale: per lui, quello che gli studiosi occidentali chiamano scienza è folclore, quello che chiamano folclore è scienza). Al centro della sua ricerca c’è lo sdoppiamento, il reincontrarsi in spirito degli sciamani che è speculare a quello dei benandanti. Shirokogorov credeva nella realtà dei poteri magici, così come ci credeva De Martino. Io no».
Ma ci credevano i benandanti e le donne che dicevano di andare di notte al seguito della Signora del gioco, di una divinità femminile, Diana?
«Quella è l’interpretazione di chierici e inquisitori. Lo storico, a mio parere, deve seguire un’altra strada, ossia partire da quei passi dei processi in cui le risposte degli imputati, donne e uomini, non coincidevano con le aspettative degli inquisitori. E la distanza culturale tra gli uni e gli altri era profondissima. In Storia notturna racconto di una predica in cui, intorno alla metà del Quattrocento, il vescovo di Bressanone, il grande filosofo Niccolò Cusano, riconosce Diana nelle confessioni di due vecchie della Val di Fassa, che parlavano di una “buona signora”, che chiamavano Richella, madre della ricchezza e della buona sorte. Cusano cercò di convincerle che avevano solo sognato, ma non ci riuscì. La loro era un’estasi, un sogno ripetuto e modellato culturalmente, molto lontano dalla nostra idea di sogno».
Come accadeva anche alle mistiche e alle sante, che pure spesso erano in grado di volare durante l’estasi?
«Uno storico ungherese, Gábor Klaniczay, ha messo a confronto processi di stregoneria e processi di canonizzazione. Se fossi un inquisitore risponderei: il diavolo scimmiotta l’operato di Dio».
Ma come è possibile che un patrimonio come quello della nostra cultura contadina non si sia travasato, come è avvenuto in altri paesi, in una produzione sistematica di letteratura fantastica?
«La risposta va cercata sul lato letterario. Gli sviluppi letterari di questi temi hanno trovato in Italia la stessa resistenza che venne opposta, molto spesso, al romanticismo».
A differenza di quanto avvenuto in Scozia, dove i sogni e i viaggi delle fate sono molto simili a quelli delle nostre streghe?
«Quella tra fate buone e streghe cattive è una distinzione formulata da chierici e inquisitori. Tanti anni fa mi imbattei in un processo modenese del Cinquecento, dove si trovava, trascritta in latino, la frase pronunciata da un testimone: Qui scit sanare scit destruere, chi sa guarire sa distruggere. Gli storici non devono partire, come spesso hanno fatto, dalla categoria del male, ma dall’ambiguità che è al centro dei poteri magici».
Che è la chiave dell’opera di Tolkien, in effetti. Accedere all’altro mondo significa anche assistere o partecipare alle processioni o alle cavalcate notturne dei morti?
«In area germanica la cavalcata notturna ha una caratteristica guerresca e maschile, e alla testa c’è un demone notturno, Hellequin, che diventerà Arlecchino. In Friuli la processione dei morti è parte dell’esperienza delle donne benandanti, mentre i benandanti maschi combattono per la fertilità, armati di rami di finocchio, contro streghe e stregoni. Sono tutte figure di mediazione con l’aldilà, capaci di andare e tornare dall’altro mondo. E questa, come ho scritto nelle ultime righe di Storia notturna, è la matrice di tutti i racconti possibili».
Tutti, certo. Anche quelli che portano una sposa recalcitrante come Ofelia nelle segrete di Chiardiluna, in un universo affollato di intrighi e clessidre come quello di Christelle Dabos. Non è un mondo altro: è il nostro, solo raccontato in modo diverso.