Vent'anni fa incontrai l'avvocato di un serial killer, che aveva stuprato e ucciso alcune giovani donne. L'imputato del processo era di un'opacità disarmante: un dolore supplementare per i familiari delle vittime, la violenza dell'indifferenza. Ma la madre di una di quelle povere ragazze, subito dopo la sentenza d'ergastolo, decise di visitarlo regolarmente in carcere. Quella storia non mi ha mai abbandonato. Allora ebbi un'intuizione». Éric-Emmanuel Schmitt l'ha sviluppata dopo tanto tempo in una novella, che dà il titolo alla raccolta di quattro racconti, La vendetta del perdono, appena uscita per e/o. Nel primo, una sorella gelosa dell'altra, che invece l'ama profondamente. Poi la storia di un uomo che abusa di una ragazza ingenua, ma più tardi le ruberà il figlio. Nel terzo, la madre che cerca di capire (solo questo?) l'assassino della figlia. E, infine, un vecchio taciturno che prende coscienza di un segreto dimenticato, leggendo Il piccolo principe a una bambina. Eccolo Schmitt, 58 anni, dal fisico imponente, ma soave quando scrive. E coinvolgente pure quando racconta la genesi del suo lavoro. Romanziere (tradotto in 45 lingue), ma anche drammaturgo, cineasta, perfino attore in alcune delle sue pièce.
Cos'è per lei il perdono?
«Dire all'altro: non ti riduco al male che mi bai fatto. Restituirgli la sua vera umanità, ma anche a me stesso, perché entrambi siamo capaci del peggio e del meglio, fino alla fine dei nostri giorni».
In genere vendetta e perdono sono opposti: perché metterli insieme?
«Nel titolo ho usato un ossimoro per mostrare che niente è semplice nelle relazioni umane e neppure nel perdono. Ci sono perdoni puri e impuri. Puri, perché sono pura generosità. E poi perdoni interessati, che sono calcoli. Perdoni egoisti. E quelli profumati di vendetta».
Oggi non si parla molto di perdono...
«È vero. Viviamo in un'epoca vittimistica. Ognuno si definisce vittima di qualcosa: della società, del potere, di una storia coloniale, di conflitti religiosi. Per essere ascoltati bisogna affermarsi come vittime. Il perdono è all'opposto: appunto, perché significa che siamo tutti capaci del peggio e del meglio».
Veniamo alle quattro novelle. la prima è la storia delle sorelle Barbarin. Sono gemelle, ma Lily è nata poco prima di Moisette. Che succede nella loro vita?
«Lily perdona continuamente tutto il male che le fa Moisette. E questo perdono a ripetizione dovuto all'amore, provoca un odio sempre più grande, il contrario dell'amore. È troppo rapido, concesso impropriamente: Moisette avrebbe avuto bisogno di limiti. E da parte di Lily esiste un certo conforto nel perdonare, è egoistico e narcisistico. Lei così ha sempre il ruolo della buona».
La seconda novella si intitola «Madamina Butterfly». Perché?
«Adoro Puccini e in particolare Madame Butterfly. Non ho mai potuto vederla senza piangere. Il mio racconto, anche nella trama, fa riferimento a quell'opera. Mandine, la protagonista, è semplice di spirito ma ricca nel cuore. È l'amore assoluto: perdona l'imperdonabile al suo amante».
La terza novella è proprio quella che dà il titolo alla raccolta. Qui di quale perdono si tratta?
«È ambiguo. Il perdono può essere la forma più raffinata di vendetta. L'eroina ha risvegliato l'umanità di quest'uomo, l'assassino di sua figlia. Ma così si prende anche una rivincita».
Invece, il protagonista dell' ultima novella è un vecchio aviatore, che legge «Il piccolo principe» a Daphné. E si renderà conto di aver commesso un crimine involontario nel passato...
«Lui vuole perdonare se stesso. Per questo ricercherà una redenzione eroica».
C'è qualcosa del suo nonno paterno in quest'anziano signore?
«Sì, lui riecheggia in tanti dei miei libri, anche in Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano. Riaffiora negli uomini laboriosi, il cui silenzio è d'oro come la parola è d'oro. Fabbricava gioielli, era un artigiano. Non era ricco ma si ritrovava a maneggiare materiali di grande valore. Ogni sera recuperava la polvere d'oro dal grembiule, quello che restava di una giornata di lavoro. La faceva scivolare in una pipetta di vetro. E io gli dicevo: ma non c'è niente. E lui sogghignava, come dire: vedrai. È morto a cinquant'anni e mia nonna si è ritrovata sola e povera. Ma la polvere d'oro di mio nonno era stata fusa in sette lingotti d'oro. E lei ha vissuto di quello».
I suoi genitori, invece, erano professori di educazione fisica e atleti. E lei è diventato un famoso scrittore. Non è strano?
«Ma loro, oltre che lo sport, amavano la cultura. C'era una quantità enorme di libri a casa. Mi portavano a vedere l'opera, al cinema, a teatro. Non bisogna cedere al cliché degli sportivi senza cultura. Da loro non ho ereditato tanto il gusto dello sport ma la fiducia nel lavoro».
In che senso?
«Mia madre è stata addirittura campionessa francese di corsa. Con uno sprint incredibile realizzò un record nel 1945, rimasto imbattuto per vent'anni. Era un'atleta di alto livello. Ecco, gli studi, che mi hanno portato da Lione, di dove sono originario, fino alla Normale di Parigi e a un dottorato in filosofia (ndr, oggi vive a Bruxelles) e il fatto di scrivere fin da piccolo hanno rappresentato un lungo allenamento per essere alla fine pronti, al momento della performance. Per scrivere».
In «La vendetta del perdono» quali sono i suol riferimenti filosofici?
«Vladimir Jankélévitch e Jacques Derrida. li primo ha scritto testi molto interessanti sulle condizioni del perdono e sull'incapacità a perdonare. Era ebreo, fu obbligato a nascondersi durante la Seconda guerra mondiale, a Tolosa, sotto varie false identità. Derrida, lnvece, è stato il mio professore alla Normale di Parigi. Aveva una benevolenza continua, che in genere hanno persone con la fede e una coscienza metafisica. Ma lui non aveva né l'una, né l'altra. E quindi era ancora più preziosa, quasi incomprensibile. Ho pensato agli scritti di Derrida soprattutto per il perdono assoluto».
C'è anche la sua fede cattolica nel libro?
«In particolare nella seconda novella. La sublimità e l'eccellenza del perdono di Mandine sono essenzialmente cristiane».
Lei si è convertito tardi, vero?
«La notte del 4 febbraio 1989 mi sono perso nel deserto dell'Hoggar, in pieno Sahara. Fino ad allora non avevo la fede. Ero nato ateo in una famiglia atea e avevo ricevuto un'educazione atea, Derrida compreso. Ma vissi una notte mistica, L'esperienza di Dio. Non l'integrai subito in una religione. Dopo ho letto i testi di diversi mistici, anche musulmani ed ebrei. Infine i Vangeli, che mi hanno portato al cristianesimo. Cl sono voluti sette anni per arrivarci. Ho letto scritti cristiani ma anche anti-cristiani: il mio approccio è stato filosofico pure nella conversione».