Breve premessa di metodo. Di solito il lettore si fida quanto basta delle quarte di copertina. Spesso enfatiche, promettono tanto e mantengono pochino. Stavolta invece lasciamo in un cantuccio la diffidenza perché ne Le Case del malcontento, le edizioni e/o indovinano il senso della storia: «Con una lingua piena di venature dialettali ma classica e letteraria allo stesso tempo, Sacha Naspini crea un romanzo potentissimo, un epopea rurale che è al contempo universale». Tutto vero. Il che non esime il recensore dal porre alcuni paletti per discutere di queste 458 pagine.
La prima nota riguarda il luogo. La storia (meglio: le storie) si svolgono tutte in una angosciosa e tetra Maremma, a Le Case, paese di poche centinaia di anime, sicura metafora di vite spezzate o, comunque mal spese.
La seconda osservazione rimanda alla lingua. Si parla spesso, a proposito della narrativa contemporanea, di "contenuto" e "contenitore". Il lettore (il romanzo, come si diceva una volta, ti inchioda alla poltrona in modo prepotente) apprezzerà moltissimo la cifra stilistica di Naspini: secca, scarnificata eppure piena di suggestioni figlie della lingua viva. Esempi? Mille. Eccone uno: «Neanche mezzo cristiano mi mette gli occhi addosso. Solo quel Mimmo. Quello stesso Mimmo che una volta si è azzardato a scrivermi le uniche parole dolci che abbia mai ricevuto e che neanche lessi». Soggetti, verbi e complementi oggetti che scorrono via con semplicità. E semplicità, in letteratura, vuol dire eleganza.
Quando, ovvio, non si trasforma in banalizzazione. Rischio che il nostro autore non corre. Il contenitore di esemplare eleganza non significa però che manchi il contenuto. Siamo di fronte a un "romanzo collettivo", ove tanti personaggi raccontano le proprie paure e le proprie speranze che spesso si trasformano in meschinità che non esiteremmo a definire "sveviane" (nel senso di Italo Svevo). L'inettitudine di fondo permea le pagine di Naspini. Il quale mostra di possedere assai bene i fondamentali (fors'anche perché di mestiere fa l'editor, vive di letteratura insomma).
Si diceva delle autobiografie che compongono questo libro. Sono storie cattive, dove un'umanità dolente (fin troppo) trascorre le sue giornate tra invide, paure, recriminazioni. E quindi abbiamo Samuele che tenta una liberazione impossibile e che (ma sarà vero o è malata immaginazione?) precipita negli abissi della follia omicida. Oppure scene di sesso - altro elemento fondamentale del romanzo - difficili da credere eppure rese verosimili dallo scrittore. Si pensi solo a quella nebbia improvvisa che avvolge i protagonisti a una festa all'aperto e all'amplesso (forse contronatura) che nasce e muore nel giro di pochi minuti. Oppure, ed è l'unico momento di "riscatto" della suddetta umanità dolente, quando una coppia, maschio e femmina, di fratelli nani e sordi, dopo un evento naturale, riacquista la supposta (molto supposta dato il contesto) "normalità".
Resta un dato di fatto: il vero protagonista è il borgo de Le Case. Con le sue strade, le sue piogge, i suoi anfratti, il suo bar dove abbondanti bevute di vino (ma almeno sarà stato buono?) rendono l'atmosfera ancora più oscura. Certo, c'è l'amore. Confuso e sognato, agognato e respinto, indefinibile nei suoi irreali spazi temporali. E, in fondo, la forza del libro sta in questa frase: «Ecco cosa si prova a sentirsi privati di cose che non ci appartengono. Va a finire che ci si abitua a una vita che è solo un carosello». Carosello senza lieto fine, magari. In cui poi non si va a letto sereni e contenti. Ma con la paura di quanto potrebbe accadere. Del resto, c'erano «nani e assassini, briganti e pazzi. Amori tranciati sul più bello, mostri fatti di solitudine». E questo perché «legavamo la vita di tanti personaggi come unendo i numerini di un rebus». Insomma, quel che facciamo tutti. Tutti i giorni. Magari, ce lo conceda Naspini, con qualche nota gioiosa di vivere in più.