Sacha Naspini, classe 1976, nella vita art director, editor ed esperto di cinema, con Le case del malcontento ha stanato un mondo che oggi, nell'epoca della comunicazione globale, sembrerebbe appartenere a un'Atlantide sommersa, schiacciata nel passato ancestrale e spazzata via dal tempo. La vita di provincia, invece, è la stessa di cento anni fa e "la gente è portata alla cagnara". Il ritmo lento delle giornate sollecita il pettegolezzo. Tutto è ricondotto a un colpo di scena ironico, a un accadere futile, del quale si chiacchiera di porta in porta. Tra vicende individuali di passione, tra amore e disinganno, la storia passa e si ferma nei panni usurati delle vedove, delle casalinghe, dei medici condotti, delle nonne, dei carabinieri che sghignazzano. Ma dove siamo? In un borgo uscito da una montagna incantata, nella Maremma dei disincantati e dei perditempo. I personaggi che lo popolano inventano la realtà dopo ogni pratica ordinaria.
Filippo Nencioni è un nullafacente, indomabile borderline al quale tutti pensano che manchi un venerdì. Si muove nell'ombra, come don Lauro, che non riesce a dormire in un paese dimenticato, che usa i soldi della questua per comprare i liquori. Il demonio si annida nelle tentazioni dei minatori, nonostante l'occhio del Signore che veglia. Le Case, questo borgo fatato e sinistro, sembra la periferia del mondo. Ogni protagonista si racconta, ed è ben diverso da come appare nella sua figura anonima. Domenico Fiorani è il contadino che si arrangia, indomito: "Ora queste mani sode sanno fare di tutto, da una minestra come dio comanda allo spaccare i ciocchi in un colpo solo, anche se per imparare quello mi sono dovuto tranciare di netto un mignolo del piede a dodici anni".
La scrittura di Sacha Naspini è saltellante: si compone di vocaboli presi a prestito dal dialetto e di descrizioni veloci, che corrono da un luogo all'altro (una piazza, una casa, un fosso, un retrobottega), da un accadimento futile a una confessione con il cuore in mano. I rituali, i sentimenti, le ossessioni vengono stesi come l'impasto di un dolce sulla tavola. Sono lavorati, conditi, serviti. Qualcuno tiene degli appunti segreti, qualcun altro spia i ragazzi che giocano nelle contrade e impugnano spade di legno. Hanno indosso le lenzuola come fossero mantelli, alzano gli scudi fatti con i cartoni e sparano le olive secche con la cerbottana. Le ragazze, un po' impacciate, in cerca di un fidanzato, si mettono al collo le collanine di spago con un sasso o un fiore fissato in mezzo. Non sanno bene perché lo fanno, così come non sanno cosa sia l'amore, anche quando un padre, una madre, un conoscente, fa il giro dei tarocchi. Le Case del malcontento non può non avere la sua leggenda, quella della torre dell'orologio che era stata la dimora di un mago cattivo, del quale si dice che scatenasse i temporali direttamente dalla bocca, che facesse sparire i bambini. Era temuto, ma in fondo tutti bramavano di vedere i suoi artigli, di assistere al rapimento di una vittima.
Si parla a fil di voce, in quel fazzoletto di terra dove anche il silenzio può cambiare, specie se arriva Samuele Radi, che invece di andarsene per sempre ha deciso di tornare. In un posto dove non si augura la fortuna a nessuno, le case si riempiono di insoddisfazioni, di malcontento, appunto. Le presunte catastrofi sono invocate come un destino, anche se dell'intero universo si discute ma non si sa niente, mentre nelle cucine si mangia una fetta di pane strusciato nell'olio.