Quando si dice…”essere un talento vero”.
Uno scrittore che riesce a cambiare completamente registro (e quando dico completamente intendo proprio “completamente”) rispetto al suo romanzo precedente (“Piccola osteria senza parole“), mantenendo non solo una forte credibilità, ma dimostrando una capacità di reinventarsi che non è affatto comune, né scontata.
È passato dalla chiusa, burbera e silenziosa provincia veneta alla dolce, sensuale e musicale provincia messicana, dagli avventori (e bestemmiatori) del “Punto Gilda”, pronti a diffidar dello “straniero”, agli abitanti di Mérida, aperti e sognatori.
Può uno scrittore italiano riprodurre quell’atmosfera lenta, soffusa, a metà strada tra il reale e il surreale, tra il terreno e il divino, tipico del realismo magico sudamericano?
Sí, può… e si chiama Massimo Cuomo.
Un realismo magico made in Italy che non ha nulla da invidiare ai suoi creatori e che su di me produce un effetto “rallentante”: il tempo (anche quello della lettura) diventa sospeso, più lento e palpabile, quasi io possa toccarlo, fermarlo, dilatarlo a mio piacimento.
Forse perché adatta i battiti del cuore al dolce dondolio di un’amaca, forse perché, fondamentalmente, non vorrei uscire da questa atmosfera fatta di polvere e luce, da questa storia che ha tanto il sapore della leggenda.
La mattina di San Cristóbal ha i rumori del mercato, il profumo nell’aria fresca di pannocchie arrostite e carne soffritta in sughi piccanti. Miguel muove a piedi verso il centro del paese, lungo vie di ciottoli diritte che salgono e scendono in dolci declivi, abbandonandosi al languore che sente attorno e dentro di sé, per vie bordate di muri dipinti, fermandosi ad assaggiare qualsiasi cosa se un colore oppure un odore lo attraggono, in posadas dai tetti rossi animati di chiacchiere e musica, fra venditori ambulanti di peperoncini, papaya, fagioli secchi e farina.
È la storia di Santiago e Miguel, due fratelli che hanno dovuto fare i conti con la bellezza di uno dei due, tanta bellezza… anzi, “demasiada belleza” (troppa).
Bellezza che separa, allontana, distrugge, ma anche unisce.
Bellezza che si prende tutto, bellezza che toglie…
Quando nasce Miguel tutta la città di Mérida impazzisce per lui, affascinata dalla sua perfezione, attratta da questo bambino così bello da essere considerato quasi “divino”.
Mérida femmina, Mérida innamorata…
E Santiago non ce la fa, proprio non ce la fa ad andare alla velocità di questo fratello che si mangia la vita a morsi, che possiede una curiosità e un coraggio che lui non ha, una sfrontatezza che si ciba degli sguardi che tutti, donne, uomini e persino animali, hanno per lui.
Santiago che arranca, Santiago sempre indietro, di lato, fuori dalla scena.
Un romanzo dal titolo molto rischioso, che si può prestare ad un gioco di parole facilissimo e molto scontato (“Bellissimo” è bellissimo) o restare clamorosamente schiacciato dal suo ossimoro (“Bellissimo” è bruttissimo).
In entrambi i casi siamo di fronte a dei superlativi assoluti.
Come Santiago e Miguel.
Cuomo ha rischiato, è stato coraggioso ed ha vinto, puntando tutto sul superlativo giusto.
Dietro al vetro c’è la faccia di Miguel, zero giorni.
Davanti al vetro c’è la faccia di Santiago, cinque anni.
La sua espressione stupita si riflette sulla vetrata insieme al neo sulla sua guancia destra. Come il bottone di una camicetta. Come il punto di un punto di domanda. E la domanda che pensa Santiago, osservando il fratellino nella culla oltre il vetro, è una soltanto: «Perché è così bello?».