Il borgo immaginario ficcato in mezzo alla Maremma toscana si chiama “Le Case”, ma le abitazioni sono 17 in tutto. Sanno di brodo e legno, parlano al passato come chi le abita. Poi ci sono 2 bar, 1 tabaccheria, 2 chiese e parecchi sentieri che si inerpicano per la collina. Isolando dal mondo gli individui e le loro sconfitte. Fino a quando un figlio doc di quel luogo fuggito in giro per il mondo, Samuele, ritorna portando con sé qualche peccato da scontare. Il suo arrivo scatenerà una serie di eventi traumatici costringendo una comunità intera a fare i conti con la sua zona grigia. Grazie a una scrittura piena e riflessiva e a un finale in crescendo, Le case del malcontento di Sacha Naspini (Edizioni E/O) gioca con un classico della letteratura neorealista italiana, da Verga a Sciascia: la provincia che ci fa più paura della città. Perché della seconda diamo per scontato il male. Mentre nella prima dobbiamo accettare che le ombre, a volte palesi e a volte nascoste persino dietro una storia d’amore, risiedano in chi abbiamo accanto: il medico, il bottegaio, il maestro, la prostituta, il contadino. Più che la trama (comunque costruita benissimo) e i colpi di scena (tanti, forse addirittura troppi), sono i loro ritratti a colpire: storie di gente incattivita che «ha la pelle dura come la cotenna delle bestie» e vive «aggrappandosi a una lacrima di speranza» da difendere fino alle estreme conseguenze. Nonostante sia appena uscito, i bene informati danno già il libro di Naspini tra i possibili finalisti per il Premio Strega: lo meriterebbe.