Caso più unico che raro, una traduttrice che diventa celebrità. Ad Ann Goldstein è successo, dopo aver lavorato alla versione inglese di l'Amica geniale (edizioni E/O) di Elena Ferrante. La "Ferrante Fever" ha colpito 48 paesi e il paziente zero dell'epidemia non è stato l'Italia ma gli Stati Uniti, dove il libro ha scalato le classifiche prima di "ammalare" il resto del mondo e superare i 10 milioni di copie vendute con la tetralogia. Le investigazioni nostrane hanno identificato dietro lo pseudonimo Ferrante la scrittrice Anita Raja traduttrice e moglie di Domenico Starnone, o forse è un lavoro a quattro mani, o di un collettivo. All'estero c'è stato più rispetto per la sua scelta di anonimato, ma la diserzione pubblica non ha spento la voglia dei lettori di incontrare in qualche forma l'autrice, così, in una sorta di maternità surrogata, è la sua traduttrice a parlare in librerie e a conferenze.
Ieri la Goldstein ha incontrato il pubblico alla Otherwise, libreria americana nel cuore di Roma, e oggi alle 18.30 bissa alla Scuola del Libro per un master. Ha contribuito molto al successo della saga famigliare partita dai vicoli di Napoli, dove si intrecciano le vite di Lila e Lenù, amiche che si amano e si imbrogliano, in una dipendenza affettiva che le accompagnerà dagli anni '50 in poi, lungo 4 volumi cui fa da sfondo l'Italia misera, del boom economico e della lotta politica. La ex redattrice del New Yorker, classe 1949, e un ponte fra l'Italia e i paesi anglofoni. Ha tradotto lo Zibaldone di Leopardi, le opere di Primo Levi, Ragazzi di vita di Pasolini, tuttavia è il caso Ferrante a renderla famosa, anche se ammette: «Non ho desiderio di incontrarla di persona, mi basta la sua opera».
Oltreoceano non c'è stata una caccia all'identità come in Italia. Come se lo spiega?
«Negli Stati Uniti non conosciamo nemmeno i nomi candidati dietro lo pseudonimo Ferrante, e i lettori americani forse sono stufi del culto della personalità. Trovano rinfrescante un autore che rifiuti la sfera pubblica».
Fanno la fila per incontrare la Goldstein. Che effetto le fa?
«Chiarisco sempre che non posso parlare per conto dell'autrice, eppure mi chiedono autografi e dediche sui libri. Mi identificano con lei. Per chi come me e abituata al lavoro solitario dietro una scrivania, ha dell'assurdo».
Chi traduce è fondamentale nel rendimento dell'opera. Un ruolo sottovalutato?
«Quasi dimenticato, è il motivo per cui faccio interviste e promozione. Voglio sottolineare la sua importanza. La settimana scorsa la National Book Foundation ha istituito per la prim a volta il premio per traduttori. Un grande passo in avanti. II successo dei libri della Ferrante da noi ha fatto aumentare un po' l'attenzione verso la letteratura».
Lei ha le royalties sui libri della tetralogia?
«Sì, e non capita spesso, invece è giusto dare valore a chi mette del suo, filtra attraverso la sua conoscenza e sensibilità. II traduttore studia molto, sceglie fra una rosa di tanti termini. A volte, per restituire il senso di una frase, non può fare un'operazione letterale. Si comporta come un attore, interpreta, perciò è diverso da chiunque altro».
Cosa pensa della trasposizione dell'Amica geniale in serie tv?
«Negli adattamenti sullo schermo mancano sempre le sottigliezze della cosa scritta e il tempo dedicato alla parola si riduce. Non so cosa aspettarmi».
Quali dubbi atroci ha avuto sulla traduzione del volume?
«Tanti. Lo stile della Ferrante corre senza pause, non nel modo che si aspettano i lettori inglesi. Perciò dovevo trovare l'equilibrio fra la fedeltà all'originale e la struttura linguistica del ricevente».
Non vi siete mai incontrate?
«No, parliamo via mail, tramite l'editore. Da quando lei è editorialista del Guardian, abbiamo una corrispondenza più privata. La mia idea personale resta però più legata ai libri. La conosco e riconosco dalle parole».
I lettori sono ossessionati dalle due protagoniste: Lila o Lenù?
«Per forza Lenù. Anche quando sono distante o non sono d'accordo con le sue scelte, sono più vicina all'io narrante».
Con la Ferrante fu amore a prima vista già con "I giorni dell'abbandono"?
«Sì, era una storia non speciale, un matrimonio che crolla come tanti, però lo stile era crudo, arrabbiato, aveva un potere originale che non avevo incontrato prima».
Si è scontrata più volte con neologismi come smarginatura e frantumaglia, o, nel caso di Ragazzi di vita, con il romanesco. Come se l'e cavata?
«Il dialetto è complicato. Ho pensato di tradurlo come uno slang americano, non certo quello del ghetto, è più una lingua rilassata, sgrammaticata. Per farmi un'idea sono venuta spesso a Roma sui luoghi di Pasolini, anche se non esistono più, né loro né quel gergo lì».
Il libro italiano che ha più amato?
«Mi so no appassionata all'italiano perché volevo leggere Dante in lingua originale. II New Yorker all'epoca pagava agli impiegati lezioni di qualsiasi cosa, convinto che dovessero avere conoscenza dello scibile umano. Ora un investimento simile non si farebbe più. II libro italiano che ho amato tradurre invece è lo Zibaldone di Leopardi. Quello che voi chiamate "il mattone"».
È speciale il rapporto fra traduttore e libro. Cosa accade dopo l'ultima pagina?
«Nel caso dell'opera di Levi e Ferrante, dopo 2000 pagine tradotte, ho sentito una forte assenza, una certa tristezza. Mi soddisfa il modo in cui la storia napoletana ma universale finisce, però ho sentito la mancanza delle "famiglie" con cui avevo condiviso anni della mia vita».
E se un libro non le piace?
«Meglio, sono libera dal coinvolgimento personale».
A cosa attribuisce il successo della tetralogia?
«Esamina sentimenti innominabili per le donne: il rapporto duro fra madre e figlia, la maternità non desiderata, l'invidia del talento, la competizione femminile. La Ferrante ti costringe a profondità che non sono sempre lecite. Certe cose non vorremmo vederle ma lei non ti permette di girare lo sguardo dall'altra parte. Non è piacevole, è necessario. Nel suo pubblico noto anche uomini. Dicono di aver compreso qualcosa di più del mondo femminile. Una cosa rara».