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Il mio amore con Troisi e il mio film d'amore

Autore: Emilio Marrese
Testata: Venerdì di Repubblica
Data: 3 aprile 2010

Diretto da D’Alatri e interpretato da due giovani esordienti, Sul mare è stato scritto da Anna Pavignano, ex compagna dell’attore scomparso. Che di lui dice «Come sarebbe oggi, a 57 anni? Uno venuto a patti con la vita.»

Sul Mare è una bella storia di amore tra due ragazzi ambientata a Ventotene, isola protagonista quanto loro del film di Alessandro D’Alatri che - dopo Commediasexi con Bonolis, Buy, Placido e Rubini - ha scelto due attori esordienti (lui, Dario Castiglio, è il figlio di Peppino Di Capri). E ha girato in digitale, con una telecamera da novemila euro e una minitroupe su due furgoncini. Agli effetti speciali ha pensato il fascino naturale del luogo, esaltato anche da riprese aeree e subacquee.

Il film, che esce oggi [venerdì, ndr] per Medusa e Buddy Gang, è tratto dal libro In bilico sul mare di Anna Pavignano, sceneggiatrice di tutti i film di Massimo Troisi nonché sua ex compagna. Sposata con due figli, sempre bella, ci riceve nel suo studio tappezzato di locandine e foto dei film dell’attore, scomparso 16 anni fa.

    È inevitabile, davanti ad alcuni dialoghi di Sul mare, ripensare alle gag tra Troisi e Arena.
    «Spesso mi viene da scrivere cose che potrebbero essere recitate da Massimo. È una scrittura comica che mi appartiene. I due ragazzi hanno tempi tipici della comicità napoletana, ma non gli fanno il verso come tanti altri. La passione per Massimo è ancora attuale ed esiste tutta una scuola partenopea in quei filoni: i suoi non sono visti come film superati.»
    Che ne sa lei dell’amore tra ventenni di oggi?
    «Ho un figlio di quell’età e comunque l’universalità dei sentimenti è trasversale. Quell’amore ha le stesse potenzialità che ho anche io adesso: non credo che da adulti sia diverso.»
    Salvatore, il protagonista, non va neanche su internet...
    «Quando sono stata a Ventotene due anni fa, internet si prendeva solo al porto. Ho conosciuto un ragazzo che portava i turisti in barca, navigando solo sul mare e non sul web. Anche se si tende a dare un giudizio massificante sui giovani, esistono realtà diverse: mi piaceva raccontare la vita di questi ragazzi che hanno un lato invernale e uno estivo come i materassi, marinai d’estate e muratori d’inverno. Salvatore è una specie di buon selvaggio.»
    Martina, la protagonista, è invece la tipica stronzetta di città. Curioso che sia nata da una penna femminile, no?
    «Risulta così, ma non volevo farla così. Lo fa soffrire come a volte gli uomini fanno con le donne, ho invertito i ruoli ma non per vendetta femminista. I suoi travagli ne giustificano il comportamento. Io, però, mi sono identificata in lui: il suo modo di sentire è femminile. In realtà quando entrano in contatto due mondi diversi, la vera differenza, anche oggi, rimane quella di classe. Si parla tanto di integrazione razziale, ma il problema non è che uno dei due sia nero bensì povero. E l’unico punto vero di comunicazione tra le classi resta l’innamoramento.»
    E anche un «buon selvaggio» va in esaurimento nervoso...
«Perché lei è portatrice di non semplicità ed è contagiosa. Lo trasforma da uno che non si chiede niente e vive come respira, ad uno che si chiede tutto, perfino come si fa a camminare. Gli tira fuori una complessità che non pensava di avere. Le sofferenze amorose non sono sempre stupidi dogmi superficiali. La depressione è questione di identità.»
    Il «moccismo» che pare aver monopolizzato i sentimenti adolescenziali, quanto condiziona chi scrive una storia d’amore tra ragazzi?
«Per niente. Io non ci ho proprio pensato. Non sono partita con l’idea di scrivere una storia giovanile, ma di amore, vita e lavoro. Un elemento importante, nel libro più ancora che nel film, è il lavoro nero, quello dei precari nei cantieri. E poi, le morti bianche. Perché le chiamano così? Il bianco dà un senso di omissione, di non responsabilità. Si immagina sempre che le vittime siano sfigati emarginati senza un volto, e invece possono avere vite belle e intense come quelle di Salvatore.»
    Come immaginerebbe Troisi, oggi, a 57 anni?
«Come un uomo venuto a patti, come tutti, con la vita. Pur mantenendo le sue caratteristiche adolescenziali penso che si sarebbe accostato a quelle responsabilità che aveva sempre rifiutato. Sebbene sul set se le assumesse tutte, nel privato non gli piaceva essere affidabile, non voleva che gli altri si appoggiassero a lui ma il contrario.»
    Raccontando la vostra storia intima, nel suo precedente libro Da domani mi alzo tardi, ha accettato che il suo nome restasse per sempre legato a quello di Troisi.
«Sì, ma credo che quel libro mi abbia restituito una considerazione professionale che non mi era stata riconosciuta al tempo. Io ero la sua fidanzata, una di cui si poteva dire “ma che ha fatto questa?” e pensare che fossi solo la sua dattilografa.»
    Dicevano questo?
«Massimo scherzava in continuazione, era molto divertente e quando ci accorgevamo che aveva detto una battuta da film ce la segnavamo su un foglietto qualsiasi, raccogliendone una marea. Ma qualcuno ha scoperto, grazie a questo mio lavoro sul passato, che la sensibilità di Massimo non era in realtà solo sua. Nessuno ricorda che sono stata candidata all’Oscar per la sceneggiatura di Il postino, scritto quando ormai ci eravamo già lasciati da un bel pezzo.»