Piergiorgio Pulixi è mio coetaneo. Se un giorno qualcuno si disturberà a studiare la letteratura noir d’inizio millennio, faremo parte della stessa generazione. Lo dico con una punta d’orgoglio, perché se io sono un modesto scrittore di provincia, prima studioso e ricercatore, e solo dopo autore di romanzi noir, Piergiorgio è un grande scrittore. Autore prolifico, con riconoscimento sia di pubblico che di critica, ha una prosa che trovo particolarmente intrigante: asciutta e curata, come un artigiano della parola cesella la lingua italiana fino a darle la forma giusta. Non guarnisce la sua scrittura di effetti lirici particolari, non la abbellisce con orpelli forse inutili, ma la rende tagliente e incisiva. Non voglio peccare di entusiasmo, ma la prosa di Piergiorgio mi ricorda quella di Sciascia: per la precisione, per l’eleganza, per la correttezza formale.
Dopo la serie Mazzeo, Pulixi è impegnato con un progetto narrativo ambizioso, «I canti del male». Su queste pagine ho letto e recensito La scelta del buio, secondo e più recente tra i canti, che saranno tredici e hanno per protagonista il commissario Vito Strega, un personaggio estremamente complesso e umano.
DOMANDA: Nella serie con protagonista Vito Strega mancano completamente i riferimenti geografici. Non sappiamo in che città siamo e l’italiano usato nei dialoghi è standard senza localismi. È peculiare nel panorama noir italiano. A cosa si deve questa scelta?
RISPOSTA: So che è una scelta parecchio in controtendenza rispetto al panorama del poliziesco odierno. Ritengo che, oltre a essere una componente fondamentale del travolgente successo del giallo/noir che scala i vertici delle classifiche, la caratterizzazione dei luoghi sia molto importante al di là del puro intrattenimento perché la letteratura – e in modo particolare quella noir – riesce a leggere e scandagliare un territorio in tutte le sue sfumature, ponendo in risalto le contraddizioni e il verminaio di disagio e incuria che ha prodotto l’esplosione dell’atto criminale o che ha dato avvio a una mutazione genetica del territorio che ha portato all’innestarsi del tumore che il crimine incarna; raccontare tutto ciò sfruttando la vis dell’empatia che si crea con i personaggi permette di portare il lettore “dentro” la storia, facendogli vivere l’ambientazione in prima persona, come se fosse lì. Per fare questo, però, è necessario (al di là del talento e di doti descrittive spiccate che do per scontati) che il territorio assurga quasi a comprimario; che con le sue caratteristiche (geografiche, culinarie, antropologiche, etc.) vada a inficiare gli stili di vita e le dinamiche sociali del microcosmo narrato nel romanzo. Per farla ancora più breve: il territorio deve essere funzionale al racconto e non una mera scenografia. L’autore deve catturare il genius loci di un zona attraverso le sensibilità dei suoi personaggi. È come se fossimo in presenza di una reazione chimica tra “ambiente” e “personaggi”: il territorio è un reagente, e la sua interazione con il personaggio o la storia deve produrre una reazione, un risultato: devono influenzarsi a vicenda. Se, invece, l’ambiente è solo un allestimento scenico di cartapesta, il lettore per primo se ne accorgerà, a discapito dell’intrattenimento e della vividezza dell’ambientazione.
Nel caso dei “Canti del Male” non ho avvertito l’urgenza di raccontare un territorio specifico. Trattandosi di una serie tematica (il focus è sul “male”) con connotazioni molto psicologiche, non ho sentito la necessità di ambientare le storie in una città particolare perché il tema non aveva un legame viscerale con un territorio. Il male è trasversale a tutte le città, le regioni, le nazioni. Mi interessava descrivere un territorio psicologico, intimo, non metropolitano o locale; quindi sta al lettore ricreare nella propria mente, a suo piacimento, la città che secondo lui più s’attaglia a quel tipo di storia: può essere la propria di città, o una autonoma frutto di suggestioni personali del lettore che io sollecito molto lievemente o addirittura abbozzo soltanto, in virtù del desiderio di dare libero spazio all’immaginazione del fruitore della storia. Credo – forse ingenuamente – che questo porti a una immedesimazione più profonda del lettore che in qualche modo viene coinvolto nel processo creativo e quindi è portato a vivere la storia in maniera più personale.
D: Il male. Il buio. Il lato oscuro. Questo è il grande tema della serie «I canti del male». Perché i canti? Vuole essere un richiamo letterario preciso?
R: Con timore reverenziale, ammetto che la suggestione dei Canti arriva dalla Divina Commedia: il viaggio agli inferi – purtroppo – è la sola cosa che accomuna le due opere; quindi, sì, devo a quest’opera inarrivabile la costruzione in Canti, e la suggestione di un viaggio mentale e spirituale nell’Inferno delle colpe degli uomini. Ciò che fa Strega, romanzo dopo romanzo, è una discesa nell’inferno metropolitano, e, a livello più intimo e personale, un inferno morale. Al suo fianco, però, non ha nessun Virgilio. L’allegoria della ragione umana che conduce per la retta via e salva gli uomini dal peccato, nel mio caso dovrebbe essere incarnata dal distintivo da Commissario di Polizia, ma non sempre Strega seguirà ciò che la sua professione lo indurrebbe a fare.
D: Nel Canto degli innocenti scrivi che Strega «aveva bisogno della rabbia e del dolore. Ci si doveva immergere». È il processo di immedesimazione con la vittima che poi in La scelta del buio svilupperai. Ecco: dalla parte della vittima, non da quella della giustizia, né da quella del male, dell’assassino. Una bella svolta per la narrativa noir…
R: Sì. Tenevo tanto a preservare la componente umana del personaggio, e questa sua profonda pietas è il suo principale tratto distintivo, che a tratti sfocia in un’ossessione: Strega non riesce a non farsi carico delle vittime; anche se volesse, che so, comportarsi come la maggior parte dei suoi colleghi e creare una diaframma tra se stesso e il lavoro, non ci riuscirebbe. In questo senso non c’è soltanto generosità, sensibilità, giustizia, ma anche molto egoismo. Strega ha un bisogno psicologico di darsi in questa maniera totale e totalizzante, di abbandonarsi al dolore della vittima. La vittima diventa di primaria importanza, e tutto il resto cade in secondo piano. Una dinamica perversa per un investigatore che dovrebbe rimanere il più freddo, distaccato e analitico possibile; Strega, di contro, vive il dolore della vittima sulla propria pelle e questo gli dà l’abbrivio investigativo di cui necessita.
D: Vi sono riferimenti precisi in questa serie alla criminologia basata sulla profilazione comportamentale del killer. Quanto una lettura come Mindhuntig di John Douglas, ti ha influenzato?
R: Parecchio. Strega ha fatto propria quella massima che dice: “Se vuoi conoscere un artista, allora studia le sue opere e la sua arte”. L’artista, nel suo caso, è l’assassino, e le sue opere, gli omicidi. È naturale quindi che gli studi di Douglas e dell’Unità di Analisi Comportamentale dell’FBI siano state un passaggio obbligato per lui (e quindi per me). La psicologia e la criminologia sono le matrici del poliziotto Strega: sull’analisi comportamentale Vito innesta poi il suo intuito investigativo e le moderne tecniche d’indagine, ma alla base rimane comunque lo studio della “mente criminale”.
D: C’è un tema che ne Il canto degli innocenti accenni, ma poi sviluppi in La scelta del buio, che è l’effetto collaterale di avere a che fare, per lavoro, con la morte, con il male. Scrivi nel secondo canto: «Perché avere a che fare con il male ti cambia» (p. 10); «Ma la realtà è che pochi resistono al confronto quotidiano col Male» (p. 20). Poi descrivi la sindrome da burnout di cui soffrono molti colleghi di Vito Strega. Qui le domande sono due: hai fatto delle ricerche su questo tema? Strega sembra, invece, non riuscire a vivere senza: ci si abitua al Male?
R: Sì, come per ogni romanzo mi documento sempre prima di iniziare una storia. In questo caso ho studiato un testo specifico (Lavorare in polizia: stress e burnout, Franco Angeli Edizioni), e ho parlato con diversi esperti del settore per comprendere quanto un mestiere così bello e affascinante – ma al contempo così complesso e pericoloso – potesse erodere le difese psicologiche dell’operatore, inficiando il suo stile di vita, dentro e fuori dalla questura/commissariato. Il tema della sindrome da burn-out e l’annoso problema dei suicidi tra gli esponenti delle forze dell’ordine, erano problematiche forti, ma che mi premeva affrontare per raccontare ancora più in profondità il mestiere dell’investigatore, e le ricadute psicologiche, morali ed etiche che ne seguono. Ho paura che ci si possa abituare al Male, sì.
D: Manuel Vázquez Montalbán sosteneva che il noir ad un certo punto incanala il disincanto provocato dalla fine delle ideologie e dei sogni rivoluzionari. Si può definire, secondo te, come una forma letteraria post-ideologica?
R: Forse qualche anno fa. Oggi incanala – a mio avviso – principalmente il disagio, la disillusione e la paura dei cittadini, che si riflettono nel modus vivendi dei protagonisti. Montalbán ha assistito al crollo delle ideologie: la mia generazione non ha conosciuto altra ideologia che il mito del progresso e del benessere propugnato dalla televisione e ora surclassato dai social; noi, oggi, stiamo assistendo al crollo delle certezze, e alla fine del sogno del positivismo, della globalizzazione, del capitalismo e del libero mercato; perlomeno per coloro che in questi hanno creduto e sperato. Quindi non colgo nel noir un’accezione ideologica o post-ideologica; continuo a percepirne il ruolo di “campanello d’allarme sociale”, un ruolo di spia verso il disagio imperante. Paradossalmente, la rivoluzione oggi sta proprio nell’affermare questo, nel lanciare un grido e cercare di rimanere ancorati alla realtà per non farsi portare via dalla Bora delle fake-news e dalle distrazioni sistematiche dei social che anestetizzano la nostra coscienza e addormentano il nostro spirito critico. Resistere e non farsi portare al largo dalla corrente narcotizzante, di per sé va considerato come un atto rivoluzionario in questo Paese.
D: Ho letto i due romanzi di questa serie in ordine inverso: prima La scelta del buio e poi Il canto degli innocenti. Ho notato che nel secondo non dai seguito al trauma che sta alla base dell’animo tormentato di Vito Strega. Eppure mi sembra un dettaglio importante perché dà una ragione del suo particolare metodo investigativo (per immedesimazione con la vittima). Ritornerà a galla il passato di Vito Strega o resterà per sempre chiuso ne Il canto degli innocenti?
R: Di sicuro ritornerà. Quel “trauma” è come un diapason: è come se fosse la nota su cui si accordano tutti i casi che segue. Non so se riesco a spiegarmi, ma è da lì che si dipana la forza, l’empatia, e il bisogno di giustizia e verità di Strega: quello è stato il suo Big Bang morale, da cui tutto è scaturito. Tornerò a raccontarlo ed eviscerarlo, quando uno dei casi in cui Strega si imbatterà farà risonare le corde più intime del poliziotto, e si creerà un transfert tra il presente e il suo doloroso passato.
D: Ne La scelta del buio Strega si intuisce che è un lettore vorace, ma non lo si vede leggere. Ne Il canto degli innocenti, invece, legge Poe e beve assenzio in un club oscuro dove suonano jazz e ci si può isolare in zone private. Questo club sembra quasi un girone dantesco. Tutta questa premessa per chiederti dei tuoi modelli letterari.
R: Poe, senz’altro. Ma sono tantissimi. Da Omero passando per la Bibbia, toccando Shakespeare e attraversando la letteratura russa ottocentesca, fino ad arrivare a Chandler, Hammett, Thompson, Ellroy, Carlotto, Connelly, e così via. Anch’io sono un lettore vorace, quindi l’elenco sarebbe infinito.
D: Jean-Claude Izzo sosteneva che il primo noir della storia fosse l’Edipo Re e per questo Gallimard lo pubblicò nella serie noire. Possiamo dire che L’Inferno della Commedia dantesca sia il secondo?
R: Probabilmente il dodicesimo, perché dalla Bibbia in poi la letteratura mondiale anche classica è costellata di opere assimilabili alla poetica noir.
D: Il suicidio è la zona più buia del Male. Si deve al fatto che è quella che più di altre va contro l’istinto più primordiale (la sopravvivenza) che abbiamo?
R: Dipende dal punto prospettico. Se ti riferisci a quello dominante – ovvero quello della società – allora credo di no, perché al suicidio viene attribuita una colpa “fatale” per la nostra società: la libertà. So che è un discorso un po’ complesso, ma la nostra società (soprattutto nelle sue radici tradizionalmente cattoliche) non abbraccia il significato che il suicidio potrebbe avere come noluntas schopenhaueriana. Schopenhauer non vedeva il suicidio come una via di fuga dalla Natura bestiale, perché il suicida ricerca il nulla per sé, ma afferma col proprio atto la volontà di vivere: negando la vita così com’è, in realtà ne vorrebbe per sé una migliore. La nostra società, invece, ha paura (ed è per questo che lo associa al Male – tutto ciò che ci fa paura di riflesso diventa malvagio) dell’estremo atto di libertà del suicida che si ribella alla vita. La libertà sfugge a un controllo sociale; e tutto ciò che non può essere controllato, fa paura. Per proprietà transitiva, il suicidio fa paura perché si configura come un atto estremo di libertà e di ribellione verso la società. Il libero arbitrio è sempre stato propugnato come un atto di estrema generosità della Volontà divina, ma nella realtà è sempre stato incalzato come un’entità demoniaca.
D: Il noir sta conoscendo un’esplosione senza precedenti. Anzi, si potrebbe dire che è al vertice da tanto tempo che è perfino difficile parlare di moda. C’è così tanto bisogno di storie nere nell’Italia e nel mondo d’oggi? Secondo te perché?
R: Perché non è uno specchio deformante della realtà come altre forme letterarie e d’intrattenimento. È un genere che si sporca le mani con la melma della realtà e non ha timore di farlo. Oggi più che mai le persone avvertono un bisogno quasi fisico di verità e onestà. Nel suo affermare che nessuno è al sicuro, e che la Società non è più quella madre affettuosa e protettrice con cui ci hanno incantato per anni, il noir dice la verità. Il Male per essere vinto va attraversato. Solo così prendi consapevolezza che le cose possono essere superate, se affrontate. Il noir, alla fine, è questo che insegna. Che i problemi esistono, e avere contezza della loro dimensione reale di per sé significa fare il primo passo per poterli affrontare e vincere.
D: Nonostante il noir non conosca cali e, anzi, inizi a entrare nelle aule universitarie, si tratta di una forma letteraria che evolve, cresce, cambia nel tempo. Qual è il suo stato attuale di salute?
R: Il noir è un virus che muta geneticamente a seconda del DNA del suo Soggetto Ospitante. È in costante mutazione, perché va a infettare un soggetto ben preciso: la società; e la società è in costante evoluzione. Questo porta necessariamente a una continua palingenesi di questa forma letteraria che si riadatta continuamente alle esigenze narrative e funzionali del racconto (quindi forma letteraria, stile, slang, etc.) e dall’altra – avendo come obiettivo quello di trasfigurare letterariamente la realtà – è alla continua ricerca di tematiche, accenni di cambiamento ed evoluzione criminale, pedinando la cronaca e in alcuni casi anticipandola. Al di là dei cliché e dei tópoi letterari, un buon autore di noir non scrive mai due volte lo stesso libro: saccheggiando la realtà, ne coglie la sua natura ondivaga e mutante, fotografandone romanzo dopo romanzo, istantanea dopo istantanea, le sue trasformazioni socio-criminali.
D: Il Premio Nobel Mario Vargas Llosa sostiene che la letteratura è perfetta anche nel dramma. Nel raccontare qualcosa di brutto, un romanzo, lascerebbe nel lettore una sensazione di perfezione e questa perfezione creerebbe lo scontro con la realtà, svelandone le imperfezioni. È una affermazione che si adatta perfettamente al noir, non credi?
R: Sì. Il noir ha una valenza autocritica nei confronti di noi stessi come “animali sociali” e nei confronti della nostra società madre. Credo, inoltre, che il suo reificare la morte, la violenza, la malvagità, e l’attitudine criminale, impastandoli con la plasticità del racconto, ci permetta di conoscere intimamente queste oscure materie; e quando conosci un qualcosa nella sua sfera più intima, allora ne cogli anche debolezze e punti di criticità e ti viene più facile affrontarlo e abbatterlo. Sono profondamente convinto che al di là del puro intrattenimento, che il noir assolve appieno, questo genere ci renda anche dei cittadini più consapevoli e migliori.