Quando Lia Levi ha esordito nella letteratura nel 1994 lo ha fatto raccontando in Una bambina e basta la sua vicenda di piccola ebrea costretta dalle leggi razziali a lasciare la scuola pubblica per frequentare una scuola ebraica e poi a trovare rifugio a Roma per quasi un anno in un convento di suore per sfuggire alle persecuzioni dei tedeschi. Ora, a 80 anni dalle leggi razziali del 1938, dopo decine di libri, molti dei quali per ragazzi, torna sull'argomento con un'altra vicenda ispirata a una storia vera, quella del marito Luciano Tas (scomparso nel 2014) nel romanzo Questa sera è già domani (e/o edizioni).
Una famiglia come tante a Genova, un bambino prodigio, Alessandro, che è l'orgoglio della mamma e che è così bravo da approdare alle medie a nove anni. Poi arrivano le leggi razziali, accolte con scetticismo dalla comunità ebraica, con la famiglia allargata che si ritrova a Livorno per decidere come affrontare la cosa, cercando di minimizzare. Qualcuno decide di partire, e chi resta si vede ritirare la licenza, è costretto ad abbandonare la scuola, mentre il clima di segregazione aumenta. Poi il pericolo si fa più pressante e non c'è altra via che la fuga: documenti falsi, un rocambolesco viaggio in treno a Milano e poi verso il confine con la Svizzera, e il rischio di essere rimandati indietro se non riescono a dimostrare di essere davvero ebrei. Ma i veri documenti sono rimasti a Genova. Come fare? Alessandro, ormai sedicenne, ha però avuto un'intuizione e si è portato con sé cucita nel cappotto una medaglietta con la stella di David che gli aveva lasciato la nonna. Sarà la loro salvezza!
Ha ancora senso dopo tutti questi anni testimoniare i fatti di quell'epoca?
«Non bisogna mai smettere di testimoniare anche a distanza di tempo. La memoria infatti non è semplice ricordo, ma rielaborazione».
Suo marito portava i segni di quanto gli era accaduto?
«Sì, aveva dei rancori terribili, è stato molto segnato».
E lei che ricordi ha di quegli anni?
«Per me che ero ancora piccola è tutto un po' ovattato. In convento mi avevano dato un nome cattolico, Maria Cristina, e quando fu finito tutto non mi hanno riconosciuto l'anno scolastico che avevo fatto lì dentro perché l'avevo fatto con un'altra identità. Ed è stato scioccante venire a scoprire che alcune delle mie compagne di classe della scuola ebraica erano rimaste vittime della razzìa del ghetto del 18 ottobre 1944 e non erano più tornate dai campi di sterminio».
Lei ha incontrato spesso i ragazzi nelle scuole per parlare di questi temi...
«Credo sia importante lasciare una testimonianza, e attraverso le domande dei ragazzi ho acquisito una maggiore consapevolezza di quanto mi era accaduto».
In quale dei suoi libri per ragazzi ha parlato della questione ebraica?
«In molti, alcuni anche per i più piccini. In particolare in Una valle piena di stelle avevo già attinto alla memoria di mio marito e avevo fatto vivere alla protagonista una fuga in Svizzera».
A 80 anni di distanza, quale valutazione storiografica possiamo dare delle leggi razziali?
«Penso che siano state sottovalutate e che tutte le colpe sono state riversate sui tedeschi. Gli italiani hanno cercato di minimizzare, non si è mai davvero preso coscienza di questa pagina della nostra storia. Tutti gli Stati, compreso il Vaticano, hanno chiesto scusa agli ebrei, l'Italia no. Faccio un solo esempio per far capire la gravità di quelle prese di posizione: il Manifesto degli scienziati razzisti, dove si scriveva: "È tempo che gli italiani si proclamino razzisti". Ecco, io credo che questo anniversario sia l'occasione per voltare davvero pagina, ma solo dopo aver ammesso le proprie responsabilità».