La prima cosa che Lia Levi mi fa notare è un’immagine curiosa e remota. Una foto di laureandi in legge del 1928. Sono ventotto minuscoli ritratti sotto ognuno dei quali c’è un nome. L’unica donna presente si chiama Leontina Segre. È la madre di Lia che è lì in quel reperto fotografico, lievemente seppiato, a mostrare la sua unicità: «Si laureò novant’anni fa e poi sposò mio padre. Avrebbe potuto fare una carriera giuridica ma le condizioni di allora non lo consentivano. Una donna era innanzitutto una fattrice e poi una domestica e infine, una tutrice di corpi familiari, finché morte non le separava da tutto questo. L’intenzione di prendere una laurea, di osare l’inosabile, fu vissuta in famiglia come una piccola stravaganza intellettuale».
Mentre parla, e parlando ricorda, Lia Levi, piccola di statura, il volto punteggiato da macchioline, è semiallungata sul divano. Siede con lo sguardo rivolto verso il grande quadro del nonno, morto di febbre spagnola durante la disfatta di Caporetto. Ho come l’impressione che molte cose che arredano la casa di questa signora di ottantasei anni appartengano alla memoria. Una memoria privata ma che in qualche modo entra, per ragioni storiche, in un tessuto collettivo: «Per un ebreo la memoria è uno strumento più forte e lancinante che in ogni altra persona. Ma non ci furono solo i “sommersi e i salvati”, non ci furono solo coloro che vissero direttamente il grande dramma della Shoah, ma anche quelli che furono sfiorati dalla tragedia e della quale per tanto tempo restarono muti o inconsapevoli».
A chi pensa esattamente?
«A me che da bambina potevo solo intuire da certi sguardi e respiri affannosi l’ansia che divorava i miei genitori. In quel biennio 1938-39 fecero di tutto per nascondermi cosa stava accadendo in Italia».
Le famigerate leggi razziali.
«Non ne seppi nulla. Vedevo mio padre angosciato che si aggirava per casa; mia madre sempre più silenziosa; quanto a me, che frequentavo la prima elementare, fui spostata dalla scuola pubblica a una scuola ebraica».
E non sospettò che il Paese stava radicalmente cambiando?
«No. Eppure gli elementi c’erano tutti. Mio padre che lavorava nelle assicurazioni era stata licenziato da un giorno all’altro. Nessuno in famiglia mi disse nulla. Lo vedevo dipingere. Non faceva che imbrattare tele e io un giorno gli chiesi: papà perché non vai a lavorare? Mi guardò asciugando il pennello e stando zitto. Capii in seguito che era solo la vergogna a renderlo muto».
Dove vivevate?
«Da Pisa dove io ero nata ci eravamo trasferiti a Torino. Le nostre origini sono piemontesi. Discendevamo da una famiglia abbiente. Il nonno di mia madre era uno degli uomini più ricchi di Saluzzo. Possedeva una banca privata, terre, perfino un castello. Ebbi un’infanzia agiata».
Anche dopo la promulgazione delle leggi razziali?
«Ero una bambina protetta. Ricordo che i miei si erano dati alle spese più diverse: avevano comprato oggetti e mobili, anche belli, forse nella convinzione che arredare la casa servisse a contrastare quel tempo buio. In realtà stavano semplicemente scialacquando la liquidazione che mio padre ebbe dopo il licenziamento».
Non cercava una nuova occupazione?
«Sì, ma chi si prendeva il rischio di assumere un ebreo? Cercò un lavoro, anche clandestino a Torino e poi a Milano. Alla fine trovò un impiego a Roma dove ci trasferimmo nel 1942. In modo del tutto anonimo si occupò degli aspetti legali di una piccola azienda».
Che città ricorda?
«Di quell’anno ho un’impressione vaga. Ricordo bene Villa Sciarra non troppo distante dove abitavamo, nella zona di Monteverde, allora praticamente campagna. Fui iscritta, come dicevo, alla scuola ebraica che si trovava sul lungotevere Sanzio. Arrivarci era un viaggio. Mi alzavo prestissimo e con mia sorella partivamo, con un autobus, per raggiungere la scuola. A causa del mio accento piemontese venivo presa in giro. Molti dei miei compagni erano figli di artigiani e operai: parlavano in romanesco e ai loro occhi sembravo solo una bambina viziata. In realtà, cominciavo a capire la vita».
La capiva in che senso?
«Stavo definitivamente uscendo da quel senso di spensieratezza che aveva segnato larga parte dell’infanzia. Quei mondi che non conoscevo, le facce nuove, a volte beffarde altre ancora provocatorie, mi turbavano. Era come se si fosse creato un tempo diverso che scorreva negli argini di un fiume buio e minaccioso. Cominciai a intuire che qualcosa di terribile potesse accadermi».
Quando ne ebbe piena consapevolezza?
«L’anno dopo, quando ci fu l’occupazione tedesca e fu chiesto l’oro come tributo a quel tempo di guerra. Metà degli ebrei romani interpretarono l’ordine come un invito rassicurante; la prova cioè di un accordo tra il comando generale germanico e il Vaticano: loro ci avrebbero lasciati in pace in cambio delle nostre ricchezze. I miei genitori furono tra coloro che non si fidarono dell’offerta».
Perché?
«Perché dall’altra parte c’erano dei lupi. L’unico che non se ne accorgeva era mio padre. Un uomo dolce, ma anche astratto e senza alcun senso pratico della vita. Una sera a tavola, nel bel mezzo di una cena se ne uscì dicendo: forse la cosa migliore è che ci consegniamo ai tedeschi, tanto non abbiamo fatto niente di male. Loro capiranno che siamo brave persone. Vidi mia madre torcere il tovagliolo, non potendogli torcere il collo. Ma lui era fatto così. Qualche giorno dopo la mamma ci annunciò che aveva trovato una soluzione. Forse».
Quale?
«Fece un accordo per fare entrare noi bambine in un convento di suore. Era la fine del settembre del 1943. A ottobre sarebbe cominciata la grande razzia del ghetto. Il convento era un collegio ancora vuoto. Mia madre ci condusse lì. Parlottò con la vecchia suora. E poi ci salutò. Le dissi: dove vai, ci lasci qui? Promise che sarebbe tornata. La suora ci fornì un nome falso e ci disse che chiunque ce lo avesse chiesto avremmo dovuto rispondere che eravamo cattoliche. Dissi che non conoscevo le preghiere e la liturgia della chiesa. Farai presto a impararle, rispose brusca. Imparai il credo in latino».
Che vita faceva nel convento?
«All’inizio eravamo in pochissime, dopo il 16 ottobre il convento si riempì di rifugiate. Arrivarono a pioggia tante bambine ebree. La razzia tedesca e fascista era iniziata nel ghetto e si era estesa a tutta la città. Leggevo negli occhi delle persone che arrivavano ancora il terrore per quello che stava accadendo. I miei genitori chiesero alla superiora se potevano anch’essi riparare nel convento. È solo per donne rispose la vecchia suora. Lei sì, può congiungersi alle bambine, suo marito no».
Suo padre cosa fece?
«Si rassegnò, poi gli consigliarono che la cosa migliore era che cambiasse spesso abitazione. Allora cominciò a fare il giro delle pensioncine romane. Ci stava una o due settimane e poi traslocava nella successiva. Una volta finì in un alberghetto che in realtà era una bisca clandestina. Per poter restare — visto che non si trovava niente altrove — dovette far finta di essere un giocatore. Finì allora con l’immedesimarsi così bene nella parte che cominciò a giocare. Non avendo nessuna cognizione delle carte, perse gran parte dei soldi che dovevano servire per la nostra sopravvivenza».
Ha amato suo padre?
«Sì, anche se il puerile entusiasmo per le cose inconsistenti, l’inclinazione a una certa astrattezza ne hanno fatto un uomo dalle vedute non già velleitarie — perché non lo era — ma inadatte alla lotta. E bisognava lottare. Ma lui, avendo faticato per conoscere la vita, non era più capace di viverla pienamente. Era come smarrito. Diverso da mia madre e dalle tante madri ebree che sono state tigri e leonesse e hanno lottato contendendo alla vita ogni boccone per difendere e sfamare i loro figli. È strano».
Cosa è strano?
«Mio padre aveva capito molto prima degli altri il lato demoniaco di Hitler e quello altrettanto insidioso di Mussolini e nella sua mente labirintica si era fatta strada l’assoluta pericolosità per il nostro popolo di quelle bestie fameliche. Ma tutto questo invece di dargli forza gliela tolse».
A parte un padre e una madre lei ha avuto un marito ebreo di cui ha raccontato la storia nel suo nuovo romanzo — “Questa sera è già domani” (edizioni e/o) — e lo ha fatto delineando la storia di una famiglia di fuggiaschi che cerca riparo in Svizzera ma che rischia di essere rifiutata.
«Mi ha colpito la forte analogia tra quella storia di ebrei che cercarono nell’esilio un riparo e quanto sta accadendo oggi. Anche allora, dopo il 1938, l’accoglienza degli ebrei in fuga dalla Germania, dall’Austria, ma anche dall’Italia era in teoria non solo fattibile ma accompagnata da bellissime parole. Peccato che all’atto pratico pochi se ne assunsero la responsabilità. Mi pare che la storia, pur nella diversità dei contesti, si ripeta».
Suo marito cosa faceva?
«La sua storia, che è poi quella che ho raccontato cambiando solo i nomi, è stata molto più drammatica della mia. Era di origini inglesi, Il padre tagliava diamanti e pare fosse particolarmente bravo. La madre aveva riposto nel figlio molte speranze. Era convinta che fosse un genio solo perché era un anno avanti a scuola. Ma quando capì che quell’intelligenza, certo vivace, si era per così dire ridimensionata, restò profondamente delusa fino a far crescere in lei un rancore vero».
Verso chi?
«Nei riguardi del figlio ma soprattutto del suocero. Quando da Londra giunse l’opportunità di riparare in Inghilterra, lei si oppose con tutte le forze. Fu un rifiuto incomprensibile, motivato solo dal suo cattivo carattere. La storia con mio marito sbocciò tardi. Ci conoscemmo io adolescente, lui più grande di sei anni, in un campo estivo sulle Dolomiti che le scuole ebraiche organizzavano. E poi ci rincontrammo molti anni dopo. Eravamo entrambi reduci da un primo matrimonio. Io dirigevo la rivista Shalom e lui chiese di collaborare. Mi informai su che cosa aveva fatto in tutti quegli anni. Mi rispose che aveva aiutato il padre al taglio dei diamanti. Mi parve strano, non avevo mai conosciuto un uomo più maldestro di lui. Ci siamo innamorati e poi sposati. È morto pochi anni fa e solo allora mi è nato il desiderio di scrivere di lui e della sua famiglia».
Quando ha pensato che fosse venuto il momento della scrittura?
«La prima volta accadde negli anni Sessanta. Inviai un mio racconto alla redazione del Mondo. Fu letto e decisero di pubblicarlo. Uscì e grande fu la mia soddisfazione. Peccato che dopo pochi numeri il settimanale chiuse. A quel punto interruppi. Ci fu una lunga incubazione. Solo negli anni Novanta ho ripreso a scrivere di me e delle storie che erano accadute alla mia famiglia e più in generale agli ebrei. Non mi ero portata dentro il rimorso o il senso di colpa. Non ero una sopravvissuta e, come le ho detto, ho saputo tardi tutto quello che era accaduto».
Si è data una spiegazione?
«Non ce ne è una sola. La storia è un insieme di strati fattuali ed emotivi che se interrogati ci danno risposte diverse e a volte perfino contraddittorie. Una spiegazione fu il bisogno di rimuovere. Per anni, dopo la guerra, le persone non vollero sapere. Chiusero gli occhi. Anche molti ebrei continuarono per anni a non sapere delle atrocità dello sterminio. Ricordo che alcuni ebrei romani, che avevano avuto parenti deportati, continuarono per lungo tempo ad andare alla stazione nella speranza di vederli tornare».
Come ne prese coscienza?
«Prima ancora delle testimonianze dirette, alle quali non si dava ascolto, non si voleva credere a tutto quello che era accaduto, per me fu importante la letteratura dello sterminio. Due libri mi aprirono gli occhi: Il diario di Anna Frank e Se questo è un uomo di Primo Levi. Non potevo crederci: improvvisamente si aprì sotto i miei piedi il baratro. Della vergogna e della disperazione. Tutto questo ha dato un senso alla mia scrittura che non vuole essere drammatica. Intende semmai raccontare come dal lato della normalità di un popolo quelle vite, le nostre vite, hanno rischiato di essere finte. La notte dell’oblio è stata il protrarsi di un silenzio che non so dire se colpevole o inconsapevole. Ma un silenzio che nel momento in cui si è spezzato mi ha dato l’opportunità di rinascere».