La sua chioma stenta ondeggia ancora alla brezza che viene dall’oceano. Intorno al suo tronco smilzo e sinuoso uno scenario che più adatto non potrebbe essere a una visione di Kurosawa: da una parte il grigio del mare; dall’altra lo scheletro di un ostello della gioventù devastato dallo tsunami dell’11 marzo 2011; in mezzo il nuovo frangiflutti, un muro alto oltre dodici metri e largo cinquanta che guarda l’oceano come a un nemico, con la pretesa di separare per sempre il regno dell’acqua da quello della terra.
Dentro l’albero solitario, di volta in volta chiamato il pino della speranza o del miracolo, non scorre più linfa, seccata dal sale depositato dall’onda killer sette anni fa. Ma l’opera umana è stata capace di sollevarlo dal suo secolare giaciglio e restaurarlo, per poi riporlo come un monumento a ricordo dell’immane disastro di Fukushima. Così a Rikuzentakata, nel Nordest del Giappone, nessuno guarda all’unico sopravvissuto di una foresta di 70 mila pini come a qualcosa di inerte, senza vita. Un po’ perché è nella disposizione culturale del Sol Levante considerare la Natura come un ricettacolo di spiriti vitali, siano essi inerenti a cose animate o inanimate. È la filosofia dello Shinto, religione panteista che fonde i diversi piani dell’esistenza in una proiezione capace di personificarne ogni componente attribuendo un kami — uno spirito, appunto — specifico a un fiume, una montagna, ma anche a un sasso e dunque, a maggior ragione, a un albero che fu. Perché poi dovremmo sorprenderci noi, quando nella nostra tradizione un pino solitario fa, per quanto malconcio, ancora la guardia alla tomba di Pirandello; oppure i duplici filari dei cipressi di carducciana memoria ci fanno palpitare quando si ammalano e — come ogni essere vivente — richiedono cure?
Arai Man, scrittore e regista, musicista e paroliere, non ci è estraneo dunque nella sua elegia dell’Albero della speranza (edizioni e/o), agile componimento in prosa poetica che dà voce al pino stesso, elevato a testimone del terribile terremoto-tsunami le cui profonde cicatrici sono, in questa regione dell’arcipelago nipponico, ancora visibili: «Sono un pino. L’unico pino che cresce sulla costa. Fino a poco tempo fa, invece, avevo molti compagni. (...) Ora quella pineta così grande non esiste più. È sparita da questo mondo senza lasciare traccia. Rimango soltanto io, una bambina...». E qui forse potremmo sorprenderci nello scoprire che «il» pino è una lei: non solo, è anche una bambina, disperata perché ha perso tutti, genitori, fratelli, amici. In realtà, la lingua giapponese non conosce genere. Dunque non si tratta dell’adattamento lessicale della specie arborea che, come la nostra quercia, potrebbe in Giappone appartenere, almeno da un punto di vista sonoro, all’universo femminile. È, invece, una scelta precisa dell’autore che, trasformando l’unico sopravvissuto in un essere capace — con talee e germogli «rivificati» — di ridonare la vita, ne fa il capostipite di una futura foresta. Anche qui siamo nel solco della tradizione più autentica. Se è vero che, secondo tradizione, l’intero Giappone deve identità e prosperità a una dea, Amaterasu, capostipite della casa imperiale, un pino-femmina può a maggior ragione riportare i suoi simili a popolare una distesa tornata brulla e sterile per colpa «della cattiveria degli dei». «Non scorderò mai, per tutta la vita, gli eventi di quel giorno — dice la giovane protagonista di legno, sorta di Pinocchio prima della lavorazione —. Dopo che la terra ha tremato con forza qualcosa di strano è accaduto nel mare. All’improvviso l’acqua all’orizzonte si è sollevata. Presto si è trasformata in una gigantesca onda nera, un muro altissimo, poi si è diretta verso la foresta di pini sulla costa e le si è abbattuta addosso. “Uno tsunami”, ha gridato qualcuno. “Scappate”. Ma noi siamo pini e certo non possiamo fuggire (...). Non so quanto tempo sia passato. Quando ho aperto cautamente gli occhi, il mondo era cambiato completamente».
Arai Man, facendo parlare la bambina frondosa, in qualche modo — ci pare a questo punto — personifica i propri fantasmi. L’autore stesso lo conferma in una sorta di postfazione, raccontando come, molti anni prima, a Niigata, sua città natale, era sfuggito a uno tsunami non meno spaventoso dell’ultimo. Acqua e fuoco lo avevano inseguito e lui, era il 1964, si era salvato per miracolo: ma il terrore aveva piantato semi venefici nel suo animo, semi che sono tornati a germogliare con l’onda nera che ha travolto il Tohoku, il Nordest del Giappone, facendo oltre ventimila vittime. La Natura, fonte di ogni energia vitale ma anche del suo contrario: devastazione e morte. Sì, gli dei sanno essere davvero «cattivi», dice Arai Man, lasciando intendere, probabilmente, che è l’uomo, per qualche motivo, ad aizzarli. Prendiamo la foresta di pini di Rikuzentakata (chiamata Takata Matsubara), un parco naturale secolare nato dall’amore dell’uomo per la bellezza del Creato e, anche, per considerazioni molto terrene: la foresta avrebbe dovuto arginare la rabbia dei flutti. Piantati a partire dal periodo Edo (1603-1868), quando a governare il Giappone erano gli shogun, gli alberi erano cresciuti fino a creare una fitta barriera di verde perenne lungo due chilometri di spiaggia davanti all’Oceano Pacifico. Con il tempo, la foresta era diventata un luogo amato, una prova della capacità dell’uomo di imitare, addirittura plasmare la Natura. O forse, come nel mito di Icaro, le nostre mani avevano osato troppo?
Sul destino degli alberi aleggia la tragedia di Fukushima, l’incidente alla centrale nucleare che ha spopolato intere città e che attende ancora una soluzione. È questo l’insulto dell’uomo che ha fatto infuriare i kami onnipotenti spingendoli alla punizione/vendetta? Il pino-bambina non sa nulla di tutto questo quando l’onda nera arriva a sradicare la sua famiglia, il suo mondo vegetale soltanto in apparenza eterno: «... la resistenza dei pini è stata impotente contro quell’onda gigantesca. Mio padre è stato trascinato via. Mia madre è stata trascinata via. I miei fratelli e le mie sorelle sono stati trascinati via. E quando tutti i settantamila pini, trascinati via, sono morti, perché solo io sono rimasta in vita?».
Cara mia, dicono i genitori in sogno alla loro bambina, tu devi vivere perché così la foresta intera tornerà a vivere. Nessuno può sottrarsi al ciclo naturale: alla morte segue sempre una rinascita. E oggi, grazie alle talee del pino della speranza, altre piante saranno messe a dimora per ricreare quel verde che ornerà il confine tra terra e mare. Certo, ci vorranno decenni prima che dei germogli fragili si trasformino in una foresta degna di questo nome. Ma non è il tempo dell’uomo che conta, ora. «Riferisco i fatti — conclude il nostro albero —. Recentemente sono stati fatti innesti con pezzi del mio corpo. Ora stanno crescendo sette bei bambini. In tre anni diventeranno piantine di cinquanta centimetri, pronte per il trapianto. Dopo di che, una volta ancora... Ho deciso di avere un sogno: trasmettere la vita. La vita che ho ricevuto da mio padre e mia madre la trasmetterò ai miei figli, dai figli ai nipoti, e così via».