Antal Szerb, classico ungherese del Novecento, aveva il gusto dell'analisi e del confronto: era fondamentale per lui viaggiare allo scopo di mettere a fuoco le proprie conoscenze. Autore di opere teoriche e saggistiche, Szerb aveva debuttato nel 1934 nel romanzo con La leggenda di Pendragon (uscito nel 1989 da e/o), in cui giocava abilmente con l'eredità del romanzo gotico britannico, smontandone i meccanismi, e allo stesso tempo raccontando il suo soggiorno di studio di due anni nel Regno Unito, in cui aveva potuto approfondire le sue passioni, specialmente su William Blake.
Spesso il poeta compare nel suo romanzo più famoso, Il viaggiatore e il chiaro di luna, uscito nel 1937 e riproposto opportunamente da e/o a oltre vent'anni di distanza dalla prima edizione italiana del 1996, nella vivace traduzione di Bruno Ventavoli (pp. 268, €16,00).
Al centro della vicenda è il viaggio in Italia di Mihàly, rampollo di una famiglia di industriali, che si reca in luna di miele con la bella moglie Erszi, da poco strappata al primo marito, l'industriale Pataki.
L'incipit sembra descrivere una trama della produzione leggere che fece di Budapest la capitale del théatre boulevardier tra le due guerre, tra certi esiti del teatro di Ferenc Molnar e i concitati romanzi d'avventura e ironie di Jeno Reito, di cui in Italia sono usciti Il ventre di Budda (Anfora Edizioni) e Quarantena al Grand Hotel (Lindau). Eppure fino dalla prima pagina i meccanismi di queste produzioni sono messi in discussione. Il protagonista considera infatti il viaggio nel Belpaese come: «una cosa da adulti, come la paternità, suscitando in lui un segreto timore, come il sole molto caldo, il profumo dei fiori, o le donne troppo belle». L'itinerario turistico è quindi da subito inceppato da una serie di epifanie che riportano al mondo adolescenziale del protagonista, a cui egli è morbosamente legato.
Immagini dei due fratelli Ulpius, Tamas e Eva, con cui ha a lungo condiviso esperienze e visioni, tornano sempre più frequentemente nel presente, come un complesso richiamo di libertà. Perciò un banale sbaglio di treni, nella stazione di scambio di Terontola, produce in lui immediatamente il desiderio di fuggire dalla consorte e dall'età adulta. Ha inizio quindi un itinerario di fuga che lo conduce a Foligno, dove viene ricoverato per un grave esaurimento nervoso. Nell'Umbria mistica ritrova l'altro amico di gioventù, Ervin, ebreo convertito, che vive come un frate in una clausura monastica severa vicino a Gubbio e che lo invia a Roma, dove ricompare il fantasma della bella Eva, di cui era stato innamorato senza speranza in gioventù.
Le vicende, gli incroci, le svolte, si moltiplicano, mentre la fascinosa Erszi decide di andare a Parigi, dall'amica Sari, per rivedere il suo destino. Szerb controlla magistralmente i numerosi fili della narrazione, smontandone a vista i meccanismi, fino alla capitolazione finale, quando a Mihaly non resta altro che tornare a Pest, agli obblighi che detesta: «vivendo come i ratti tra le rovine», ma ben sicuro che quando si vive: «può sempre succedere qualcosa».