Gli ebrei non se l’aspettavano perché si sentivano – ed erano – troppo italiani per percepirsi in pericolo. Per questo, le leggi razziali del 1938 dell’Italia fascista li colsero di sorpresa. «I provvedimenti contro gli ebrei continuavano a cadere a scansione lenta, come quei goccioloni radi ma già carichi che preludono alla tempesta. Si ritrovarono fradici senza neanche essersene accorti». Difficile trovare parole più efficaci di queste, usate da Lia Levi nel suo ultimo romanzo, per spiegare l’incredulità e il senso di tradimento vissuti dagli ebrei italiani di fronte alle leggi razziali. E a volte un romanzo come il suo Questa sera è già domani in uscita da e/o (pagine g. 217, euro 18) può risultare più efficace di un ragionatissimo saggio storico per cogliere un aspetto poi risultato decisivo nel successo del corpus legislativo più vergognoso della storia d’Italia: gli ebrei italiani furono letteralmente spiazzati.
Eppure le leggi razziali di ottant’anni fa erano state precedute dalla «politica di tutela della razza» conseguente alla conquista dell’Abissinia. Preparate dal Manifesto degli scienziati razzisti del luglio, poi dal censimento degli ebrei del 22 agosto 1938. Poi, tra il settembre e il novembre di quell’anno, privarono dello status di cittadini e lasciarono alla mercé dei nazisti circa 40.000 ebrei pure a tutti gli effetti italiani al punto che, come documentato da Sarfatti, Avagliano e Palmieri, non mancavano tra essi quelli che avevano aderito al Pnf.
Nella storia narrata da Lia Levi che è quella della famiglia di Luciano Tas, il suo compagno scomparso nel 2014 e come lei scrittore e giornalista risalta come, all’atto della promulgazione delle leggi, gli ebrei non immaginassero, se non in pochi casi, la tragedia in arrivo.
Non che fossero mancati i segnali di pericolo: già dalla campagna d’Africa, i giornali di Telesio Interlandi «Il Tevere» e «La Difesa dalla Razza» – avevano preparato l’incontro tra razzismo e antisemitismo. Più tardi, con la fuga degli ebrei dall’Austria e dalla Germania, nessuno delle 32 nazioni riunite per cercare una soluzione mostrò disponibilità ad accogliere i profughi, circostanza che fa riecheggiare sinistre consonanze con le attuali chiusure ai migranti in fuga da guerre e persecuzioni. Però in quel 1938, nella famiglia genovese dei Rimon descritta nel romanzo, esattamente come nella maggior parte nelle case di ebrei italiani, a prevalere fu la convinzione condivisa da molti personaggi descritti da Lia Levi: «In Italia sarà diverso, le leggi razziali non saranno capaci di applicarle, cadranno nel nulla, gli italiani non sono razzisti». Il che equivale all’idea degli «italiani brava gente» e del fascismo come dittatura «all’acqua di rose» messa in discussione solo a partire dalla Storia degli ebrei italiani durante il fascismo di Renzo De Felice del 1961, ma resistita a lungo e tuttora in circolazione come vulgata nazionale condivisa in chiave autoassolutoria.
Per i Rimon l’ebraismo non denotava particolare fervore religioso né osservanza assidua dei precetti. L’orafo Marc e sua moglie Emilia erano soprattutto una famiglia genovese come tante altre, e alle prese con un figlio, Alessandro, così precoce nell’apprendimento da saltare due classi e essere considerato, fino ai dieci anni, un piccolo genio. Sulle prime, quell’identità nemmeno percepita dal bambino si manifesta come presa in giro dei compagni di scuola: «Sei di Gerusalemme?». La prima avvisaglia è il sequestro della radio, seguito dall’obbligo di fare a meno della domestica per il divieto, per gli ebrei, di avere alle proprie dipendenze personale «ariano». Evento che indusse la madre di quella, paesana analfabeta ignara delle leggi, a sgridare la figlia: «Cos’hai fatto disgraziata? Farsi cacciare in questo modo». Ma il pericolo si rende palpabile quando a Genova arrivano a migliaia «gli ebrei austriaci» in fuga e la famiglia Ramon ospita Hermann Berg, dell’età di Alessandro, spaventato all’idea di sedere su una panchina o di pattinare sul laghetto, cose in Austria vietate ai «non ariani».
L’esperienza più allucinante narrata da Hermann è quella della vicina di casa, frau Elfriede, prima prodiga di sorrisi e gentilezze, poi trasformatasi in sciacallo: un giorno fa sapere a sua madre dell’imminente trasferimento di sua figlia, fresca sposa, in un appartamento vicino, vicinissimo... cioè proprio quello dei Berg.
La promulgazione delle leggi, con la confisca dei beni, i divieti di ricoprire impieghi pubblici, di essere titolari di aziende, di frequentare le scuole o di essere docenti e tutte le altre interdizioni, si manifesteranno così nella famiglia come progressiva privazione della libertà. Quando l’allarme crescerà, e i Ramon si riuniranno con tutti i parenti per valutare la situazione, tra loro non prevarrà la soluzione subito prospettata dal piccolo ma perspicace Alessandro: la fuga a ogni costo. Solo molto dopo, affidandosi a un «passatore» per oltrepassare la frontiera svizzera, la famiglia prenderà la decisione e, con rischi altissimi, riuscirà a mettersi in salvo. La descrizione di quel transito angoscioso, così simile a quello di chi oggi tenta di fuggire da persecuzioni e guerre per trovare altrove una nuova vita, ha la capacità di far sentire al lettore fino a che punto sia vero che la storia, per il ripetersi dei suoi orrori, non è mai maestra di vita.