Detenuto nel campo di concentramento di Balf, a Sopron, in Ungheria, lo finirono a calci e pugni: eppure aveva avuto la possibilità di fuggire, ma non lo fece perché voleva condividere il destino del suo popolo.
Lui si definiva un «poppante occhialuto», uno che non si è mai staccato dal seno della letteratura. Ma come può un «poppante occhialuto» decidere di restare in un campo di concentramento?
Antal Szerb, morto come abbiamo detto, il 27 gennaio 1945, e nato a Budapest l'1 maggio 1901, era fatto così, una sintesi fra il peggio della tragedia e il meglio della commedia leggera, fra gli incubi più angoscianti e i sogni più dolci, fra gli orrori di due guerre mondiali e le atmosfere ovattate dell'Austria-Ungheria poco prima della loro finis. Nato da una famiglia ebrea medio borghese, aveva cominciato a succhiare dall'inesauribile tetta della poesia e del racconto al liceo, sostenuto da Sándor Sík, prete e professore. E quando si laureò in letteratura ungherese e tedesca, conosceva già bene sia l'inglese, sia il francese. Così, insieme alle porte geografiche, visti i suoi lunghi soggiorni a Parigi, a Londra e in Italia, anche le porte della cultura europea gli si aprirono. Dapprima furono gli spiragli da cui passa lo Szerb saggista, poi, negli anni Trenta e Quaranta, i paesaggi a perdita d'occhio di cui lo Szerb narratore si pasce, dimostrando una pantagruelica fame di temi e toni, ambientazioni e coloriture, ascendenze e generi.
La leggenda di Pendragon, del '34 (pubblicato per la prima volta in italiano dall'editrice e/o nell'89), è, in un colpo solo: un omaggio alle atmosfere gotiche tanto care al vittorianesimo; un vaudeville leggero come un valzer; un poliziesco; un mystery; una parodia della chincaglieria rosacrociana; una storia d'amore. Uno studioso ungherese, János Bátky, viene invitato in un castello gallese dall'Earl of Gwynned, discendente di un'antica dinastia, divenendo testimone involontario di agnizioni, discese in polverose cripte, incantevoli serate al chiaro di luna. Romanzo teatrale per i continui cambi di scena, insaporito da qualche pizzico di umorismo ungaro-british, La leggenda di Pendragon ci offre di Szerb il lato soft, con una vicenda in cui ciò che accade è importante quanto il modo in cui lo si presenta al lettore.
E il secondo Szerb, quello drammatico, nero, claustrofobico, da incubo? È tutto concentrato in Il viaggiatore e il chiaro di luna del '37, che sempre le Edizioni e/o ripropongono ora (pagg. 271, euro 16, traduzione di Bruno Ventavoli). Il protagonista, l'inquieto Mihály, a 36 anni (quanti ne aveva l'autore quando scriveva...) si è lasciato alle spalle l'Ungheria delle sue radici e del lavoro nell'azienda di famiglia ed è in viaggio di nozze in Italia con Erzsi. Venezia lo inquieta. Invece Ravenna potrebbe rasserenarlo, se non vi incontrasse János, un vecchio amico dell'adolescenza e della giovinezza. È sufficiente la sua apparizione per accendere la miccia alla bomba dello psicolabile Mihály, nel quale qualche interprete ha visto i riflessi del Peter Camenzind di Herman Hesse. In una notte ad altissima tensione emotiva l'uomo, ben carburato dal vino, sciorina alla donna tutti i retroscena della propria vita: il legame morboso, forse oltre l'incesto, tra i fratelli Tamás ed Éva Ulpius, nella casa dei quali Mihály è introdotto, la fragilità di Ervin, allora ebreo appena convertitosi al cattolicesimo, e per converso l'animo guascone di János, anch'essi membri del sodalizio.
Erzsi sulle prima abbozza, mostrando una curiosità femminile di prammatica, ma poi comprende che fra suo marito, sposato dopo aver lasciato il primo, il grigio ma economicamente ben messo Zoltán, e la non allegra combriccola il legame è ancora solido, nonostante un suo membro sia morto suicida. E che da quell'Éva, ape regina con quattro fuchi a svolazzarle intorno, occorre guardarsi...
Da lì in poi il romanzo, tutto italiano tranne qualche puntatina a Parigi, è un crescendo, e a dirigere l'orchestra sono gli instabili umori del protagonista. Bellissime le pagine in cui egli si perde, proprio come un viaggiatore sotto il chiaro di luna, nell'Umbria francescana, rurale da cui è inspiegabilmente attratto (e dove ritrova qualcuno di molto importante...). Szerb è efficacissimo nel descrivere il senso di estraneità di Mihály nei confronti dell'Italia, del «vegetativo popolo italiano» che «come il mare, sopportava con meravigliosa passività il cambiamento dei tempi e non era solidale con la propria grandiosa Storia». Roma, Spello, Assisi, Spoleto, Gubbio e infine di nuovo Roma: la grande e decadente bellezza del Paese più amato da Szerb, forse anche più della sua patria, sistema sul palcoscenico dello scrittore ungherese le quinte ideali per ospitare un non-eroe decadentissimo che dopo una vita di fallimenti non riuscirà nemmeno nel più insano e perentorio dei gesti. Mihály è un Des Esseintes magiaro che ha voluto andare à rebours, ma finisce costretto a seguire la corrente.
Forse qui sta il messaggio più definitivo di Antal Szerb: un uomo, da solo, non ce la fa a essere, se non sa che cosa vuole essere, quindi per essere, deve essere come lo vogliono gli altri.