Kant e il vestitino rosso di Lamia Berrada Berca (Edizioni E/O, traduzione di S. Manfredo) è un’irresistibile storia sulla forza dirompente dei desideri e del “folle volo” del sapere.
La protagonista è una trentatreenne che viene sempre chiamata “la donna”, per sottolineare l’estraniamento da sé, cui è costretta dalla rassegnata sottomissione al marito-padrone «rispetto al quale lei è ancora e per sempre una bambina»; un marito che l’ha portata a vivere in un paese sconosciuto del quale non comprende la lingua e in cui trascorre i suoi giorni in assoluta solitudine, chiusa nel suo burqa nero che la nasconde al mondo, guardando a tratti dalla finestra «qualcosa che non esiste».
Ma bastano il desiderio di un abito rossoesposto in una vetrina e l’ascolto (dalla voce della figlioletta perché la donna, che solo dopo la presa di coscienza della propria identità oserà nominarsi, presentandosi a se stessa e agli altri come Aminata,è analfabeta) di alcuni brani di Che cos’è l’ Illuminismo, saggio di Kant preso di nascosto dallo zerbino del dirimpettaio, a far sì che nel velo di rassegnazione che l’avvolge si aprano le prime crepe e Aminata inizi il proprio percorso di ribellione e emancipazione.
Il desiderio dell’abito nasce dall’attrazione per il suo colore, quel rosso che, nella storia della donna, «è soltanto un grido», che ricorda «il sangue del montone versato al paese nei giorni di festa» e quello «versato sulle lenzuola delle nozze», ma anche quello delle insalate di pomodori e peperoni o della salsa harissa. Un desiderio che Aminata in un primo momento percepisce come ridicolo e colpevole, ridicolo al punto da farle venire il dubbio di essere impazzita e peccaminoso perché «quando si è donne desiderare un vestito rosso è un atroce peccato», ma che in breve tempo inizia invece a interpretare come consapevolezza che un’altra vitaè possibile:«smettere di essere notte in mezzo al resto del mondo. Smettere di essere una stella morta … Smettere di non essere …».
È proprio da lì, dallo sguardo dapprima sfuggente e vergognoso, poi lentamente senza più paura, rivolto al rosso che risplende dalle vetrine di una boutique nella scintillante Belleville, che inizia il percorso della donna verso la conquista della propria identità. Un viaggio la cui prima tappa è costituita dalla brutale rivelazione, cui giunge «all’improvviso, come in una folgorazione, che in questo modo lei non sarà mai felice» seguita dal rifiuto di dire al marito, che le chiede indignato come si sia permessa di andare a parlare con la maestra della figlia senza prima consultarsi con lui, che ha ragione, «perché, semplicemente, non è vero. Perché la verità inizia a farle meno paura», e dal riconoscersi il diritto di fare qualcosa – sia pure un gesto ordinario come sciogliersi e profumarsi i capelli – per se stessa. E quando lo sguardo sognante della madre incrocia quello, altrettanto sognante, della figlioletta che immagina le sequenze del film che la maestra ha fatto vedere alla sua classe, ma non a lei perché il padre glielo ha proibito, nasce tra loro una complicità rafforzata dalla comune presa d’atto che il mondo «puzza d’ingiustizia». Una complicità femminile che, malgrado la sofferenza e l’ira repressa di entrambe, risplende «di piccolissimi frammenti di sogni di colore», trasformati dalla bambina in disegni dalle tinte sgargianti.
Aminata scolpisce dentro di sé le parole del saggio cui si rivolge per aiutare la figlia e se stessa a stare meglio: «C’è solo una cosa da fare: lasciare che gli occhi scrutino il mondo e diventino uno sguardo libero, libero di sognare il mondo, di sognare quale mondo trasformare per coloro che arriveranno a vederlo dopo di lui…»
Subito dopo la scoperta del desiderio, un’altra rivelazione contribuisce a far crescere in lei la consapevolezza dell’inaccettabilità della sua vita. Si tratta dell’incontro, grazie al libro temporaneamente sottratto al vicino, col «sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenz!», l’esortazione illuminista a uscire dallo stato di minorità, cioè dalla «incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro».
Sarà proprio la duplice scoperta – stupefacenteper una donna nelle condizioni socio/culturali e religiose di Aminata – da un lato del desiderio d’indossare un rosso-grido, simbolo di risveglio alla femminilità, quindi alla vita e alla gioia che si contrappone al nero mortuario in cui da sempre nasconde al mondo se stessa, dall’altro della possibilità di usare “kantianamente” la propria ragione anziché quella altrui, a trasformare “la donna” in “Aminata”. Adarle cioè il coraggio di iniziare a percepirsi non più come un fantasma ma come “un individuo”, una-donna capace di avere pensieri e desideri tutti suoi e, quindi, «di esistere per se stessa».
Davanti a un orizzonte che al suo sguardo nuovo non appare più muto e immobile ma “ormai grida anche lui, da lontano”, Aminata inizia a porsi interrogativiper troppo tempo rimasti sepolti in qualche angolo nascosto dentro di lei; poi trova il coraggio di cercare delle risposte, per scegliere infine la strada che le verrà indicata da Kant, quel magico Kant dal “nome duro e gutturale” sul cui libro, nascosto come un tesoro nella pancia di una pentola in attesa che possa svelarle i suoi segreti, non smette di sognare
L’abito rosso e Kant fanno sì che Aminata inizi a riflettere sul proprio stato di «donna programmata per garantire l’igiene e la felicità di tutti. Qualcosa d’insignificante e banale che non deve attirare lo sguardo, che deve far credere a tutti che il rispetto ancestrale dell’ordine delle cose garantisca una felicità semplice e senza fronzoli».
La spingono a riflettere sul fatto che «tutta la sua vita consiste nel trattenere i giorni prima che arrivi l’ultimo, quello in cui la sua morte diverrà l’ultimissimo e il più salvifico evento della sua vita», e su quanto è ridicolo «essere madre senza essere liberamente donna», ma prigioniera di un marito cui è dovuta una cieca obbedienza. Un marito delle cui menzogne si rende contro per la prima volta, a cominciare da quando le ha promesso che l’avrebbe portata in un paese in cui sarebbe stata felice. Un marito che, sebbene le altre donne del Paese glielo invidino perché non si ubriaca e non la picchia, «si accontenta solo di fare come se lei non esistesse». Un marito al quale, dopo che le ha proibito di parlare ancora con la maestra della figlia e a quest’ultima di andare al cinema con la propria classe, per la prima volta rifiuta di concedersi, rifiuto cui lui reagisce violentandola e picchiandola.
Osa chiedersi perché nella sua cultura bisogna sempre nascondersi mentre «bisognerebbe fare di tutto per spargere luce». Quella luce provocata in lei dalle parole di Kant: «Ci vuole tempo. Ma le parole si fanno strada. Adesso sono al limitare della sua coscienza. Luminose. Spazzano via gli ultimi residui della notte.” Grazie a loro la Donna comprende “all’improvviso - con sgomento - quale sia il cammino per darsi la possibilità di essere, finalmente, l’unica responsabile di se stessa», animata da un’incrollabile volontà va a comprare l’abito rosso e per la prima volta si riconosce, svelandolo alla donna della boutique e ai lettori, come Aminata, anziché come innominata immagine-ombra del marito. Solo dopo che tutto questo è avvenuto il libriccino di Kant sarà, sia pure a malincuore, restituito allo zerbino del vicino.
Per la prima volta Aminata riesce anche a superare la sessuofobia che le hanno inculcato sin da piccola, vedendo due innamorati baciarsi trasforma l’iniziale disagio in un senso di immedesimazione, pensando con naturalezza che potrebbe esserci lei al posto della ragazza. Ma soprattutto ha il coraggio di percorrere, con l’abito rosso addosso, i dieci passi che separano il suo appartamento da quello del vicino, per deporgli sullo zerbino il ritratto di lui che ha fatto disegnare alla figlioletta e quando l’uomo apre inaspettatamente la porta, malgrado la violenta emozione e l’imbarazzo, coglie la profondità del suo sguardo, lasciandosene affascinare. Sarà proprio il biglietto lasciato dall’uomo «dai pensieri liberi» dentro il Libro Sacro che al termine della storia le porta in dono, in cui la esorta a leggerlo per capire che «nessun precetto nel libro sacro dice che lei sarà ridotta in cenere nel giorno del giudizio» se vestirà in modo diverso rispetto a quello imposto dalla tradizione, a farle superare anche l’ultima barriera, spingendola a specchiarsi senza paura mentre indossa l’abitino rosso e a dire alla figlia: «domani me lo metto per accompagnarti a scuola».
Il libro è scritto con un tocco poetico che nasce dall’emozione, capace di creare nei lettori una profonda empatia, con cui viene vissuto il viaggio interiore della protagonista, e dalla leggerezza sognante con cui viene raccontato, che ha spinto alcuni a definirlo una favola. Ma è anche un testo intimamente sovversivo, più “illuminato” e “illuminante” di tanti saggi sull’emancipazione femminile e la lotta ai fanatismi, alcuni dei quali inseriti dall’autrice in appendice al libro, quasi a voler confrontare la piccola parabola di Aminata con la storia dei movimenti delle donne e delle loro conquiste. Una sorta di confronto tra storia collettiva a storia privata da cui emerge il tuttora grande divario tra le diverse zone e culture del mondo. Per arrivare però a una conclusione universale: come dimostrato dal potere salvifico che l’incontro con Kant e l’abitino rosso ha avuto per Aminata,è impossibile tenere prigioniera una donna che ha imparato a sognare, desiderare e pensare con la propria testa.