(...) Di avviso quasi diametralmente opposto è Lorenza Pieri, che vive negli Stati Uniti con la famiglia e che da lì ha pubblicato nel 2016 Isole minori, un romanzo dedicato all’Isola del Giglio in quello che nel contesto del nostro discorso appare come un vertiginoso zoom dal generale al particolare, dal centro alla periferia. Secondo Pieri «l’esperienza della migrazione è la condizione ideale per la scrittura in sé», a sua volta «una specie di esilio dal quale provare a raccontare la vita». Il problema casomai è linguistico, nel senso che «diventare come quegli expat a cui non vengono più le parole nella lingua madre» è l’incubo kafkiano di ogni scrittore che non sia Giorgio Scerbanenco (quello è l’unico caso in cui incollare un italiano ruvido sulla sintassi slava ti può rendere un meraviglioso scrittore noir). Prima di partire per gli States, Pieri ha lavorato per quindici anni tra Einaudi e minimum fax, facendo coincidere il passaggio da una sponda all’altra dell’Atlantico con «il salto della barricata da un lato all’altro dell’editoria». E se anche mi confessa (deve essere una confessione) di seguire con grande interesse la politica italiana, la sua fedeltà al paese che ha lasciato fa eco alla distanza professata da Mancassola: una reazione contraria, ma altrettanto estrema.