Tezaki Rei si sveglia ogni mattina alle quattro, prepara il suo bentō e si dirige verso la scuola. Rei ha quindici anni e frequenta le scuole medie. O, almeno, questo è quello che gli ha riferito il Professore, l’uomo che l’ha creato. Perché Rei è un robot e, in quanto tale, il suo unico scopo è quello di rendere felici le persone. Per raggiungere il suo obiettivo, deve mischiarsi agli esseri umani e studiarli da vicino. Non prova emozioni, Rei, non è nella sua natura. Si limita a guardarli attraverso quei suoi freddi occhi, senza mai riuscire a comprenderli davvero. Razionale, controllato, Rei osserva chi lo circonda e si chiede il perché delle loro azioni. Sono così sentimentali, questi umani, così bizzarri. Però, gli vuole bene, tiene a loro, non vuole vederli soffrire. Ma come si fa a non far soffrire una persona, se non la si conosce fino in fondo? Così, Rei fallisce. Ferisce i suoi amici e va, letteralmente, in tilt. Il suo corpo da automa è danneggiato, gli errori che si generano sono irreparabili e tutto il dolore, quel dolore che ha faticato tanto per mandare giù, torna, prepotentemente, a galla.
“Ho alzato gli occhi al blu limpido del cielo. Ah, che bel sole oggi, avrei pensato se fossi umano. Per me, invece, quella luce era troppo luminosa, troppo calda. Ho temuto potesse surriscaldarmi il computer.”
Sono partita subito forte, con questo libro. Ho letto le prime cinquanta pagine tutte d’un fiato, in una folle mezz’ora, completamente rapita dalla brillante idea di un automa appositamente plasmato per portare felicità al genere umano. Poi, improvvisamente, qualcosa è cambiato: mi sono persa al punto da dimenticare cos’era, che mi aveva portata fin lì; al punto da mettere tutto in discussione. Ci ho visto troppi tecnicismi inutili, nel parlare della passione di Rei per il ping–pong. Mi hanno fatto storcere il naso, mi hanno annoiata tanto che, in preda a un impulso, stavo quasi per mettere il libro da parte e rimandare la conoscenza di Rei a qualche altro giorno. Poi, però, nel giro di qualche pagina, tutto è cambiato di nuovo e, rinvigorito, tutto il mio trasporto è tornato a farsi sentire.
“Il mio aspetto è quasi uguale a quello umano. Mi rendo conto, però, di essere diverso, perché non provo sentimenti.”
Mi è piaciuto molto lo stile di scrittura di Sakumoto Yosuke: così chiaro, così lineare, mai pretenzioso. Mi è piaciuta anche la delicatezza con la quale lo scrittore giapponese ha affrontato il tema della schizofrenia, tema a lui particolarmente caro, a causa della sua personale condizione. Yosuke è riuscito, più volte, a farmi sentire vicini a Rei, al suo essere lontano dal genere umano, in un senso, e al suo esserne profondamente, inesorabilmente, parte, dall’altro.