L'Olimpico era la più bella pianura di Roma, compresi gli spalti, le gradinate, una pianura nel momento in cui si offre, come fiorendo.
Amavo andare allo stadio e quell'anno avevo visto tutte le quattordici partite giocate in casa, insieme a mio padre, senza mancarne nessuna: Lazio-Sampdoria alla seconda giornata di campionato, con il gol del nostro capitano Pino Wilson, Lazio-Fiorentina, con quel rigore tirato da Chinaglia dritto nella parte centrale del corpo di Superchi, Lazio-Inter e poi anche il derby vinto con quella mezza rovesciata sporca di Long John e poi Lazio-Milan con il gol all'ultimo minuto del nostro angelo biondo, Luciano Re Cecconi, e poi tutte le altre, fino ad arrivare alla penultima partita di campionato, Lazio-Foggia, quella che avrebbe assegnato il primo scudetto della storia alla Lazio.
12 maggio 1974.
Io e mio padre quella domenica eravamo arrivati un'ora e mezzo in anticipo. Al solito ci sistemammo sotto la Monte Mario, all'altezza della linea mediana del campo: il posto migliore, dove si vedevano bene il campo verdissimo e i giocatori, si sentivano le urla bestiali e anche le bestemmie. Mio padre cominciò subito a parlare con i vicini di posto, tessera Tribuna Monte Mario perenne, a offrire caffè Borghetti a tutti, a cantare insieme a loro la canzone della Lazio: «Fino a ieri co’ ‘sta Lazio, per noialtri era ‘no strazio. Ora stamo tra li mejo e niente più ci fermerà!».
Io per una volta non mi unii a loro, non mi andava per niente di cantare e nemmeno di vedere la partita: sarei stato volentieri a casa a sentire la radio ma non avevo avuto il coraggio di dirlo a mio padre. Mangiucchiavo una pagnottella con la frittata giallo-oro che mi aveva preparato mia madre, ma tanto per fare qualcosa e per distrarmi, in realtà non avevo neanche un po' di fame. Ogni tanto davo un'occhiata angosciata al cartellone luminoso sopra la curva Sud dove giravano le lancette del grande orologio, poi continuavo a far finta di mangiare.
«Come mai il nostro golden boy non è in campo oggi?».
La voce si levò sopra di noi. Una voce roca e potente. La riconoscevo, era la voce di uno dei nostri eterni vicini di posto, un funzionario della Rai, un uomo grande e grosso e di bell'aspetto che sfoggiava sempre un'abbronzatura da maestro di sci, la pelle lucida e oliata, e portava il Panama. Io non mi voltai. Mio padre invece si affrettò a spiegare all'uomo che soffrivo di un'unghia incarnita che mi permetteva a malapena di camminare, ma non di giocare.
Mentre prese a raccontare tutta la storia dell'unghia, «c’è quest’unghia che si ripiega col bordo laterale nel vivo della carne… un’anomalia… un’anomalia nella crescita, credo...», i miei compagni di squadra cominciarono a uscire dal tunnel degli spogliatoi: camminavano lungo la pista di tartan rosa e qualcuno era già entrato nel rettangolo erboso, si guardavano intorno, si toccavano l'uccello sotto le tute acetate, come fanno i veri giocatori. Avrei dovuto esserci anch'io lì con loro, su quel campo di un verde inverosimile, più vivido del verderame, più del muschio e delle alghe, più di qualunque verde sulla terra.
Erano due anni che giocavo nei Giovanissimi della Lazio.
Non ero titolare, e spesso il mister mi faceva giocare inspiegabilmente fuori ruolo: difensore centrale quando invece sarei stato una mezzala.
Ero fragilino, elegante ma un po' timoroso, quando lo stopper sarebbe dovuto essere roccioso e spietato.
Ad ogni modo certe domeniche giocavo, partendo anche dall'inizio: nell'ultima partita a Nepi avevo sfiorato il gol e fatto un assist al bacio al nostro ariete, Marco Torre.
Quindi proprio non sarei dovuto essere in tribuna quella volta.
E invece ci stavo.
L'allenatore Forlivesi non mi aveva convocato per la partitella contro i Giovanissimi dell'Almas, prima del grande incontro della Lazio con il Foggia. Ce l'aveva preannunciato il venerdì precedente dopo l'allenamento al campo di via della Pisana. A un certo punto era entrato nel nostro spogliatoio mentre ci stavamo docciando (io con le mutande, perché mi vergognavo) e ci aveva detto: «Domenica giocherete all'Olimpico per una partita di intrattenimento. Ricordate che anche se è un'amichevole, io come sempre voglio vincere».
Il sabato ero andato con mio padre in segreteria per vedere le convocazioni, ma il mio nome non c'era. Mio padre riteneva che fosse solo una svista dell'allenatore e tentò di parlare con Forlivesi, con il presidente, con uno dei dirigenti, e una volta a casa telefonò anche ad Angelo Tonello, il responsabile dell'organizzazione impianti, quello che mi aveva raccomandato per entrare alla Lazio. Ma non ci fu niente da fare.
Non ero nella lista e dovevo mettermi l'anima in pace, avrei partecipato a un'altra partitella all'Olimpico, magari il prossimo anno.
Ma non ci sarebbe stata più nessuna occasione, perché io l'anno seguente smisi di giocare nella Lazio e poi, dopo una stagione all'Urbetevere, al calcio.
Quel giorno osservavo i miei compagni giocare contro i nanerottoli dell'Almas. Assorbivo con gli occhi i colori e la luce e ogni loro minimo movimento.
Maurizio Scarsella, con la sua andatura dondolante e anserina, proprio all'inizio della partita fece un cross di quasi novanta metri che tagliò con un'unghiata tutto il campo e che non ho più visto fare a nessuno.
Qualche anno dopo, giovanissimo, ha esordito in serie A contro il Torino, poi è slittato in B, quindi in C, fino a scivolare tra le squadre dilettanti. È morto il 26 settembre del 1993, di un brutto male.
Poi Massimo Piscedda, il nostro libero, che spazzava via tutti i palloni e correva sui talloni imitando smaccatamente Pino Wilson. Un giorno durante una partita di allenamento mi rincorse per tutto il campo per un falletto che avevo fatto a un suo compagno.
Anche lui ha esordito in serie A abbastanza presto, in una partita persa col Verona 4-2, dove gli attaccanti penetravano dalle sue parti come spade: ora è il responsabile tecnico della B Italia.
Poi Pasquale Belsito, l'arcigno terzino. Dopo una decina di minuti per la smania esagerata strappò il pallone finito in fallo laterale dalle mani di un carabiniere. Prima degli allenamenti, Scarsella e Piscedda lo prendevano spesso in giro cantandogli: «Pasqualino Cammarata, capitano di fregata», e a lui si irrigidiva la mascella.
A diciotto anni è entrato nella Colonna romana dei NAR. Ha ucciso non so quante persone, tra poliziotti e cosiddetti infami e delatori. Arrestato a Madrid il 30 giugno del 2001, dopo 20 anni di latitanza (io lo vidi una sera d'estate verso la fine degli anni '80 in una gelateria sulla fettuccia di Terracina, il Pinguino, giubbotto verde militare col bavero alzato, le mani sepolte nelle tasche, si guardava intorno nervosamente. Per un attimo ho avuto la tentazione di infilarmi in una cabina telefonica e fare una chiamata, ma poi ho lasciato perdere): è stato processato e condannato a quattro ergastoli. Suo padre, insieme a mia madre, era l'unico genitore che aspettava il figlio dopo gli allenamenti. Era un maresciallo della polizia, ed è morto di crepacuore, ho saputo.
Forlivesi, il nostro allenatore, di cui non mi ricordo il nome, scamiciato e stropicciato come al solito, stava in piedi davanti alla panchina, a sbraitare, e a aizzare come bestie i suoi giocatori.
L'ho cercato invano, in Rete, per anni. Un giorno di mezza primavera del 2009, mentre aspettavo l'autobus su un marciapiede di Circonvallazione Trionfale, l'occhio mi è andato sull'insegna di un negozio: Forlivesi immobiliare. Ho fatto capolino, ma dietro la scrivania c'era una ragazza dall'aria annoiata, forse sua figlia.
Quel giorno, alla fine della partitella, mentre salutava il pubblico con la mano aperta e stava per imboccare il tunnel degli spogliatoi, Scarsella mi individuò tra la folla. Scavalcò i cartelloni pubblicitari, si avvicinò alle protezioni di plexiglass e cominciò a chiamarmi. Poi mi indicò agli altri compagni. Tutti ridacchiavano, mi sbeffeggiavano.
Sembra una cosa inventata, una brutta pagina di Stephen King, e invece è tutto vero. Vent'anni dopo, nel 1994, ho ripensato a tutto questo e ho scritto un libro, il mio primo libro, Il calciatore. Il protagonista si chiama proprio come me, gli altri nomi invece l'ho cambiati: nella prima scena il trentenne psicopatico è rinchiuso dentro a una Cinquecento Fiat, la stessa con cui sua madre lo portava agli allenamenti di calcio, e sta aspettando che passi il suo vecchio allenatore Mario Malatrasi, per ammazzarlo.
Come ho detto, non ho più giocato a calcio e neppure a calcetto con gli amici.
Non vado allo stadio ormai da tanti anni, da quando è nato mio figlio.
Il vecchio stadio Olimpico, dopo i lavori per i Mondiali di Italia '90, non esiste più: la pianura, per la presunzione di elevarla, ora è soffocata verso l'alto e chiusa da vele orizzontali e oppressive, ma non c'è più vento, e anche la pianura non c'è più.
Il romanzo di Massimiliano Governi, "Il calciatore", è tornato in libreria da una settimana per le edizioni e/o